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Fare industria è un atto sociale. In Italia, la riscossa dei valori manifatturieri deve passare da una nuova concezione di fabbrica e di filiera industriale, che colga le sfide dell’innovazione e del rapporto con il mutato contesto della domanda. Anche per quanto riguarda il modello di gestione delle imprese, nodo che torna all’ordine del giorno con la nuova designazione di Vincenzo Boccia alla presidenza di Confindustria, le tradizioni nazionali devono saper voltare pagina nell’era della Internet of Things e delle logiche di Industry 4.0 (la quarta rivoluzione industriale).

Nel programma di Boccia si parla del rilancio della vocazione industriale del Paese, affrontando le leve di competitività e puntando su tecnologia e innovazione in un quadro di rinnovato sistema che aiuti le piccole imprese a crescere, le medie a diventare grandi, le grandi a diventare multinazionali.

Un nuovo paradigma destinato a rivoluzionare profondamente il sistema economico, modificando alla base i concetti di transazione, proprietà e fiducia è rappresentato oggi dalla blockchain, cioè da un’architettura distribuita di coordinamento e certificazione informativa. La Germania ha già avviato progetti di applicazione in diversi ambiti industriali. Noi dobbiamo ancora cominciare a studiare. Il modello di controllo decentralizzato e autonomo basato sulle blockchain è componente fondamentale per le soluzioni industriali della Internet of Things. Le associazioni settoriali sono il terreno ideale di definizione dei protocolli di controllo distribuito di filiera, che possono mettere a sistema le nostre tecnologia, sia fra di loro sia con i partner tecnologici - per primi i nostri co-opetitor tedeschi e i loro piani di Industry 4.0.

In una rete degli oggetti, le piattaforme basate su blockchain possono gestire i flussi di dialogo e interscambio tra dispositivi intelligenti. La grande opportunità delle blockchain nelle soluzioni IoT è ben lungi dall'essere solo un esercizio teorico. Da operatori storici a start-up, le nuove tecnologie stanno sfruttando le capacità delle blockchain di rivoluzionare i tradizionali scenari di piattaforme sistemiche centralizzate. Confindustria potrebbe guidare questa evoluzione in Italia. Una delle sfide sarà scrivere le specifiche degli Smart Contracts (forme di contratti scritti in modalità algoritmica, in grado di essere eseguiti e controllati automaticamente al verificarsi di condizioni specificate) che garantiscano il dialogo tra le nostre macchine, i nostri processi industriali e i mercati a valle.

Ma l’industria deve trovare il modo di ridiventare visibile, centrale e rilevante nella conversazione sul futuro dell’economia e della società. Per ogni filiera industriale italiana d’eccellenza (sull’esempio di quanto sta avvenendo con il food, grazie all’iniziativa del parco “FICO” di Eataly in Emilia), andrebbe discussa la realizzazione di un “industrial retail park” ovvero un polo di attrazione industriale e commerciale di esperienza innovativa.

Per le specializzazioni più classiche del Made in Italy, dobbiamo trasformare l’industria da brutto anatroccolo manifatturiero da nascondere in periferia in elegante cigno industriale, polo di attrazione turistica e commerciale. Ciò si ottiene sviluppando piattaforme di “factory retail” che siano così cliente-centriche ed esperienziali da catturare e fidelizzare il consumatore con elementi di personalizzazione e individualizzazione di prodotto e con tecnologie di realtà aumentata per la trasformazione del momento transazionale dell’acquisto in un momento relazionale / esperienziale. L’obiettivo è generare contributi da parte delle comunità di consumatori (il lato della domanda) con effetti virali e di condivisione dei valori sottostanti alla strategia di fondo, ovvero innovazione e sostenibilità, inclusione e partecipazione.

Possiamo puntare a inventare i primi, innovativi “industrial retail park” al mondo, superando l’ormai obsoleta frattura logistica di origine novecentesca tra manifattura e distribuzione, che, a causa del vecchio modello di specializzazione del lavoro, ha spesso contribuito a impoverire l’ambiente urbano, privandolo prima delle botteghe artigiane e poi delle unità produttive manifatturiere.

Fare impresa oggi è diventato relativamente più facile grazie alla migliore accessibilità ai fattori produttivi tradizionali, come lavoro e capitale. Assistiamo ad un ruolo crescente delle reti sociali anche rispetto alla nuova imprenditorialità: pensiamo ad esempio a LinkedIn per il lavoro oppure alle piattaforme di crowdfunding per il capitale. 
In questo nuovo scenario le occasioni si moltiplicano e gli spazi per le rendite di posizione si riducono: concorrenza crescente, globalizzazione cavalcante sono due fenomeni che però non fanno il paio con la politica praticante il verbo della apertura e della competizione libera. Eppure le società aperte fanno meglio nel lungo periodo.

Dobbiamo inoltre farci carico di una nuova educazione all’industria, che quando si tratta di tirare la carretta del PIL ha sempre moltissimi cantori tardivi e magari anche un po’ tardoni, ma purtroppo sempre meno amanti giovani e appassionati. Per ogni filiera produttiva che sfocia in beni di consumo, proviamo a ripensare l’esperienza della nostra tradizione industriale per realizzare qualche esempio di “fabbrica esperienziale del futuro”. Una fabbrica aperta, riproposizione contemporanea della bottega artigiana in un contesto di sofisticata automazione industriale.

La filosofia di fondo è che solo attraverso l’educazione diretta della domanda sull’effettivo processo industriale si possano creare nel futuro comunità di consumatori consapevoli e responsabili. Le possibilità di poter fare innovazione attraverso il web, innescando virtuosi sentieri di crescita e sviluppo per le persone coinvolte, non sono mai state così vaste e potenti come in questi anni.

La sostenibilità moralistica è gioco a somma zero, le tecnologie sostenibili sono un gioco a somma positiva. L’economia sostenibile è stata per troppo tempo trastullo per filosofi e moralisti, ora deve diventare sfida per imprenditor i, ingegneri e scienziati. Chi fa impresa è bene che abbia tutta l’intenzione di farci dei soldi analizzando quanto rende e studiando come brevettarla. La “Sostenibilità” ha avuto il ciclo culturale dell’astronomia, ed ora è passata da Tolomeo a Copernico, dai discorsi sulle stelle fisse a quelli sulla gravitazione universale. Deve passare dal dominio della discussione filosofica ed etica a quello della scienza e della tecnica.

Come la meteorologia, dalla danza della pioggia di qualche sciamano, all’app 3BMeteo sui nostri telefonini con il sistema di avviso per prevenire disastri. Il problema non sono più solo le esternalità ambientali, ma le esternalità sulla domanda: effetti virali di controllo e sanzione sociale su chi non è sostenibile.

Ora vogliamo passare dal proibizionismo normativo al principio kantiano dell’impegno interiore. La battaglia per le tecnologie sostenibili è una battaglia di vantaggio competitivo, non di buonismo smozzicato. Uno degli esami per la “nuova” Confindustria è anche questo e vorremmo vedere tutti gli attori determinati a vincerla.

In Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Joseph A. Schumpeter descrive il funzionamento di un’economia di mercato come un processo di “distruzione creativa”. Secondo Schumpeter è l’innovazione (“I nuovi beni di consumo, i nuovi metodi di produzione o di trasporto, i nuovi mercati, le nuove forme di organizzazione industriale create dall’impresa capitalistica”) il motore di questo processo. La sua conseguenza è che, per la prima volta nella storia, la massa della popolazione nei paesi sviluppati gode di un livello di vita che le aristocrazie del passato avrebbero potuto a malapena immaginare e raggiungere.