trivellasalento

C’è una parte d’Italia che più di altre ha sentito il referendum sulla durata delle concessioni alle piattaforme di estrazione di idrocarburi al di sotto delle 12 miglia marine come un’arma di riscatto, un’occasione di rivincita. Con il 47,5 percento di affluenza, la provincia di Lecce si è issata a petto nudo sul podio d’Italia dopo Matera e Potenza.

Così, nei Sì prova di audacia, quel Salento, terra da sogno per i vacanzieri, ha sfogato un’identità puntusa e arrabbiata, con una insurrezione post-vendolista che ha preso di mira le trivelle come figure para-mitologiche, epifania e protesi dell’ulivo che non c’è più, del gasdotto che sta per arrivare. Non c’entrava mica il merito della questione, non c’entravano proprio i giacimenti che non c’erano come in Basilicata. Il referendum è stato per molti una missione apostolica salvifica, una crociata. Assecondato anche da una classe politica bipartisan pancia a terra nel seguire la pancia, uno stuolo di sedicenti liberatori del territorio oppresso che voce non ha (ma cantanti sì) ha sgranato il rosario del “Libera Nos a Malo”.

Una schiera di moderne bizzoche e perpetue, senza velo e per questo più chic, pie, ma non chine, si è prodigata devota a diffondere il dogmatico catechismo del sì, al suono di un laico Adeste Fideles, con un volantino, una sillaba, mica coi dati, urlando di voler scongiurare l’immaginifico rischio di galloni di petrolio fluttuanti nei mari di San Foca e Otranto che manco la Guerra del Golfo. In nessun altro posto come il Salento, il voto e la partecipazione sono stati un atto cieco o quantomeno ad occhi chiusi, un coro da curva, un inno e una ola per consolarsi e insieme scacciare una nuova maledizione. L’esaltazione dell’irrazionalità, del mistero inspiegabile. E guai ad azzardarsi a non votare perché la scomunica sarebbe stata pronta per il traditore e il complice del complotto poi ad agosto non sarebbe dovuto tornare e il bagno avrebbe dovuto farselo altrove.

Insomma, è stata la messa cantata della tradizione retriva, “un populismo di plebe e non di proletari che affida al nuovo giustiziere una missione impossibile e utile solo per attendere il prossimo fallimento”, per dirla con le parole del tarantino Angelo Mellone in “Addio al Sud” (2012). La campagna per il Sì in Salento aggiunge una nuova pagina alla ricca storia del raggiro dell’elettore al Sud, ma per fortuna è finita e bene. Con un risultato che non cancellerà nulla, ma che dovrà comunque convincere un territorio e la sua gente a cambiare, a innovarsi nella testa.

A partire dal privarsi di quell’ossessione del nemico (e dunque del piacere e godere per i No e l’abrogazione) che fornisce alibi, pretesti, rassicurazioni e assoluzioni, di fronte a uno sviluppo che non c’è, dopo decenni di abusivismo, sversamenti, contaminazioni e incuria (quella che ha fatto viaggiare a buon passo la Xylella), fatta dai salentini stessi, non dalle lobby, né dai petrolieri. Non bastano certo la retorica della frisella, la promozione del lifestyle del dopoguerra, la politica massiva del turismo lungo due mesi con un boom ridotto a dieci giorni, il culto per una subcultura che viene fusa virtualmente con Giamaiche e Californie.

Per troppo tempo fino a oggi, si è pensato di risolvere disoccupazione e povertà con la parola magica del “turismo”. Come se ogni casa rimasta vuota per lo spopolamento post globalizzazione potesse diventare un bed and breakfast aperto tutto l’anno. Come se ogni grande spazio inutilizzato dovesse trasformarsi in parcheggi e aree eventi, previa asfaltatura con bitume naturalmente. Come se tutta la penisola, al di là della costa, potesse trasformarsi in un agriturismo o una masseria a cielo aperto tutto l’anno e si potessero aggiungere ovunque lettini e ombrelloni, a bordo piscina, lontani dal mare.

Ai giovani che non vogliono partire è stato, di fatto, lasciato il sogno del posto in un call center, in un talent show, nell’esercito, nel servizio civile, qualche briciola di straforo nei progetti con fondi europei o nel lento ricambio generazionale nel mondo delle professioni e della Pubblica Amministrazione che ammorba tutto il Paese.

È questo il prodotto e l’eredità dell’economia della nostalgia, quella che da troppi anni pensa che solo i bei tempi andati possano dare ricchezza e che dunque l’unica risposta sia difendere l’esistente, i muretti a secco, senza un’idea di come si vuole essere tra vent’anni, senza preparare una crescita che comprenda anche l’industria, i capitali pesanti, una nuova manifattura innovativa dopo il calzaturiero che non tira più e il tabacco che non si fa.

Il quorum fallito non ci cambierà la vacanza, ma dovrà aggiornare la speranza, rendendola più razionale, progettabile e per questo impossibile da agitare e brandire come un pastorale vescovile. È l’ora di iniziare a dire qualche Sì per costruire e non per cancellare.