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Questo pezzo è contro la mitologia dell’imprenditore. Il pretesto è la morte del signor Bialetti, il creatore della caffettiera monopolista assoluta dell’immaginario caffeinico italico finché non è arrivata Nespresso con le sue capsule globali fighette e costose.

Una bella storia di genio imprenditoriale come quella del signor Bialetti merita certamente l’entusiasmo del racconto epico, come lo meritano le storie di altri imprenditori altrettanto geniali, creativi, magari spregiudicati, magari anche fortunati ma comunque capaci tutti di arricchire simbolicamente anche noi consumatori, oltre che di arricchirsi loro. Di recente questi imprenditori vanno anche in prima serata tv, e questo è un bene.

Queste persone diventano miti perché inventano qualcosa che genera un bisogno di consumo di massa che prima non c’era. Chessò, l’iPad, Facebook, la Coca Cola. Questo tipo di imprenditore - il changemaker - è la parte più didascalicamente appassionante del libero mercato e però è l’eccezione, non la regola e, senza nulla togliere alla regola, questo andrebbe sottolineato se l’obiettivo è “fare una sana cultura imprenditoriale”, e non della mitologia. 

Fuori dal mito, l’imprenditore non è un genio, non è un creatore di unicità: è uno che vede opportunità di mercato e le coglie. Il kebabbaro che fa affaroni con l’ape nel quartiere trendy della città metropolitana del Nord non ha creato un prodotto originale, ha colto un’opportunità e su quella ha investito, rischiando. T-shirt, giacche di finta pelle e leggings non li ha inventati Zara, ma il fiuto nel cogliere il potenziale del mercato low-cost, quello sì è merito suo. La signora delle pulizie che misura la domanda alla quale da sola non è in grado di far fronte, e mette sù la sua agenzia di servizi domestici capisce che c’è spazio nel mercato, e ci si infila. Questo fa l’imprenditore nella vita reale, non le app che cambiano la vita a miliardi di persone nel giro di tre ore.

Riconduciamo allora il tema alle sue dimensioni sistemiche concrete - che non sono affatto meno appassionanti delle visioni mitiche, anzi magari aiutano pure a farne percepire la eventualità in luogo della eccezionalità. Avviare e gestire un’attività redditizia, qualunque essa sia, è una gran bella cosa; una cosa alla portata anche di chi non ha le caratteristiche del grande imprenditore. Almeno un paio di generazioni di adulti contemporanei (le più giovani) stanno già imparando non a cercare ma a inventarsi il lavoro, cioé creare un’attività su misura - parziale o a tempo pieno - che impegni, soddisfi e produca reddito. Eccoli qui gli imprenditori ordinari, quelli della porta accanto, quelli che potresti essere anche tu.

Per gli attivi del mondo globale però muoversi sulla base della libera iniziativa, più che frutto dell’aspirazione lo è della necessità - una necessità non esclusivamente, ma prevalentemente materiale. Non avere un lavoro è una schiavitù almeno quanto lo è averne uno aberrante o economicamente poco gratificante, e il mercato del lavoro italiano non è un giardino fiorito di rigogliose opportunità. Neanche fare impresa è una passeggiata, ma inventarsi qualcosa è l’unico modo per camminare. Fare impresa diventa strumento, non fine. Più prosa che poesia. E nulla questo toglie al mito, semplicemente è un’altra cosa.

Una buona ragione per appassionarsi al fare impresa insomma è l’istinto di sopravvivenza. Sono le scarse opportunità nei mercati professionali tradizionali insieme ad una maggiore familiarità con uno stile di vita frammentato e auto-gestito. Ed è anche il fatto che siamo più liberi, sebbene non ancora del tutto, dalla subordinazione culturale allo status sociale del titolo professionale (essere avv, essere dott.) a renderci più propensi a vedere nel mercato, non nella società, il luogo in cui trovare un ruolo. 
L’avvocato che invece di vivacchiare alle dipendenze di uno studio ristruttura la casa al mare dei nonni e ci fa un b&b; il pubblicitario che appende il Mac al chiodo e si dà alla falegnameria non sono storie che vedi nei film, sono le storie dei tuoi amici anche fuori da Facebook. Storie imprenditoriali anche queste, né mitiche né geniali. E sono queste che ti danno l’esempio, che ti fanno vedere l’opportunità anche dal punto di vista tuo, molto più di quanto racconti il caso unico del creatore geniale.



Il mito è bello da raccontare, aiuta a fissare l’asticella, ma se si vuole competere su quel piano - la narrativa mitologica dell’imprenditore reale - si deve tener contro che il mercato narrativo è parecchio competitivo, e che le storie vere che tirano di più sono quelle à la Pablo Escobar (che non puoi mettere con Renato Bialetti, con tutto il rispetto). Le storie mitiche non ti fanno immedesimare. Le contempli, ti appassioni ma non è che dopo aver visto Narcos decidi di avviare il business nel tuo quartiere, se non hai già una peculiare predisposizione.

Fare impresa è tante cose - inventare cose geniali, inventare modalità geniali di vendere cose ovvie, trovare modi geniali di fare soldi comprando e vendendo i soldi altrui. A volte invece non ha nulla del geniale ma molto dello strumentale - l’impresa per necessità o per bisogno di libertà. Ed è questa declinazione del fare impresa che merita oggi di essere culturalmente nutrita e politicamente sostenuta, perché questo poco epico ma molto pragmatico farsi imprenditori può significare trasformare un rischio probabile e diffuso (essere professionalmente bloccati o fuori mercato) in opportunità (trovare un mercato, anche diverso da quello di origine, e costruirsi un proprio spazio lì). L’impresa changemaker di biografie personali, dunque.

Il bacino di questi imprenditori in potenza contiene dai non ancora entrati nel mondo professionale ai già quasi usciti, e non per limite d’età. Queste persone possono cercare un lavoro all’estero, parcheggiarsi qui almeno ancora per un po’, oppure costruirsi una nuova opportunità attraverso la libera iniziativa. Se si ritiene che la libera iniziativa privata, anche piccola, possa essere un’opzione realistica alla non stagnazione sarebbe utile riflettere, fuor di retorica e nel contesto sistemico, sulle chance imprenditoriali delle persone comuni.

@kuliscioff