banca etruria

Ci sono due libri molto interessanti usciti recentemente, scritti da Vincenzo Imperatore, un ex dirigente di banca “pentito” di aver operato per anni secondo una logica dominante negli istituti di credito italiani: il “piazzismo”. Dal telefonino al mutuo, dal motorino al fondo super sicuro, dal tablet alle obbligazioni subordinate della banca stessa, quelle da "botte di ferro”. I libri di Imperatore presentano un aneddotica allo stesso tempo gustosa e drammatica, perché molte delle storie raccontate accadono in mezzo a noi, a volte accadono proprio a noi.

Le banche italiane, quelle che non parlano inglese (ricordate quando quel venditore di fumo di Giulio Tremonti se ne vantava nei circoli internazionali?), si stanno rilevando assolutamente inadeguate ad un’economia avanzata e complessa. Le banche che vanno a braccetto con la politica, le banche che fanno politica, più sensibili a potentati e interessi localistici e di parte che ai numeri dell’economia e dei bilanci delle aziende a cui prestano.

L’Italia, l'intera società italiana, arriva alle nuove norme europee sui salvataggi bancari assolutamente impreparata. Negli ultimi giorni abbiamo assistito all’impazzimento dell’informazione, allo scaricabarile di tutti a tutti. Salvini, Grillo e gli altri agitatori di piazza che qualche anno fa gridavano allo scandalo dei prestiti pubblici alle banche in difficoltà (ricordate i Monti-bond?), oggi protestano perché lo Stato non sta mettendo soldi pubblici ma ha imposto ad azionisti delle quattro banche in crisi, titolari di obbligazioni subordinate e correntisti sopra i 100mila euro di partecipare al salvataggio (insieme, peraltro, alle altre banche italiane su cui pesa l’onere del salvataggio).

Tutti - premier incluso - attaccano e criticano l’Unione Europea, quell’entità indistinta e lontana che fa ormai da capro espiatorio di ogni problema nazionale. Eppure da Bruxelles, per bocca del commissario ai servizi finanziari Jonathan Hill, sono arrivate dichiarazioni lapalissiane: “le quattro banche salvate dall’Italia vendevano alla gente prodotti inadatti”. Inadatti a cosa? A fungere da bene cassaforte per i risparmi, è chiaro.

Tanti, tantissimi italiani hanno sottoscritto fino ad oggi obbligazioni subordinate della propria banca. Persino i dipendenti stessi delle banche sono pieni di questi titoli. L’umanità è variegata e l’alfabetizzazione finanziaria degli italiani molto bassa, per cui sicuramente le motivazioni dell’investimento sono le più disparate: c’è chi scientemente accettava un alto rischio per un alto rendimento, c’è chi è stato raggirato dal bancario piazzista, ci sono gli imprudenti e ci sono quelli di fatto costretti a comprare porcherie in cambio di buone condizioni di credito da parte della banca stessa. Le truffe vanno perseguite e severamente punite (con rapidità, altra questione che merita riforme profonde).

Ma in molti risparmiatori, e in molti di noi, la scelta di investire in quei “prodotti inadatti” è scaturita spesso da una convinzione granitica: che in fondo le banche non falliscono o che, se falliscono, paga lo Stato, cioè i soldi di qualcun altro. Quel che è accaduto è drammatico. Un risparmiatore si è suicidato perché si è sentito tradito, molti altri vedono svanire i risparmi di una vita. La sfiducia nei confronti delle banche andrà montando sempre più e peggiorerà la situazione di altre banche anch’esse sull’orlo del precipizio (o pensate che sia finita con Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara?).

Ma reagire alla situazione demonizzando le regole europee sul bail-in (il salvataggio interno, cioè da parte di chi ha messo capitale di rischio in una banca) non farà altro che incancrenire la situazione. Quelle regole sono severe ma giuste, perché servono a rendere le banche più forti e sicure, meno vulnerabili anche di fronte all'ipotesi di un default sovrano: è quello l'obiettivo primario dell'unione bancaria dell'area euro, evitare di scaricare sul debito pubblico e sulle future generazioni i guasti del sistema bancario privato. Ingiusto, molto ingiusto, è invece il modo in cui le banche italiane hanno finora svolto il proprio mestiere: hanno investito male i soldi dei risparmiatori e hanno venduto prodotti inadatti, per dirla con Hill.

E ora? Ora bisogna anzitutto diffondere tra gli italiani una più robusta cultura finanziaria: tra le economie del G7, siamo ultimi in termini di alfabetizzazione finanziaria, con una situazione penosa persino tra i giovani. E’ una questione cruciale. Poi bisogna adeguare l’Italia e il suo sistema bancario ad un’economia sempre più complessa: il tempo del nanismo bancario, della banca che parla in dialetto e a cui affidiamo tutte le nostre scelte di investimento è tramontato. Il bancocentrismo dell’economia italiana è una zavorra: il mercato internazionale vede sempre più le banche competere con i fondi pensione, con il venture capital, con le forme tecnologicamente più avanzate e disintermediate di finanziamento peer-to-peer (le piattaforme di prestiti tra privati stanno costantemente crescendo). Sollevare e affrontare questi temi significa aiutare concretamente l’economia e i risparmiatori italiani: illuderli che sia stata l’Europa a uccidere il pensionato di Civitavecchia e a depredare i soldi dei poveri obbligazionisti e correntisti, vuol dire giocare ancora una volta sulla loro pelle.