Il tasso di crescita del costruito rallenta dal 1980. Dal 2008 la produzione edilizia è diminuita del 30%. Un terzo degli interventi riguarda la riqualificazione del patrimonio esistente. Intanto in Parlamento avanza una legge che ha gli stessi difetti di quelle che non hanno impedito gli abusi e gli squilibri del passato.

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I dati esposti dai media a testimonianza della necessità di arrivare quanto prima all'approvazione di una legge contro la "cementificazione del territorio" dovrebbero dimostrare che la tendenza a utilizzare, o come si usa dire, a consumare il suolo proceda inarrestabile senza flessioni. A questo fine si usano stime e numeri concepiti per dimostrare questa tesi, omettendo di fornire precisazioni utili a leggerli e ad interpretarli in modo corretto.

Come ricorda nel suo Atlante del consumo di suolo una studiosa non "revisionista" come Paola Bonora, la quantificazione del fenomeno avviene in assenza di misurazioni ufficiali e metodologicamente condivise, ed è realizzata utilizzando fonti diverse e strumenti e metodologie difformi, che non consentono la confrontabilità dei dati. Non si tiene neanche in conto il fatto che, secondo dati forniti dall'Istat, la quantità di suolo impermeabilizzata dal 1980 in poi è aumentata in modo sensibilmente inferiore a quanto accadeva in precedenza.

Accanto a questo dato tendenziale, altri numeri poco valorizzati ed elusi sono quelli della flessione della produzione edilizia degli ultimi anni, che la Banca d'Italia ha stimato dell'ordine del 30 per cento dal 2008 al 2014. Senza contare che all'interno del dato relativo alla flessione della produzione edilizia - che ovviamente non comporta una simmetrica riduzione del suolo "consumato" – l'ambito della riqualificazione dell'esistente rappresenta ben un terzo degli investimenti totali e mostra un andamento in continua crescita negli ultimi anni.

Sono anche altri gli elementi volutamente omessi o trascurati, come quello riguardante il rapporto tra il numero delle famiglie - non il dato assoluto (e in flessione) della popolazione - e il numero delle abitazioni, che concorrono a documentare l'esistenza di una domanda di trasformazione del territorio. Quest'ultima non può essere considerata pressoché nulla o, se esistente, "cattiva", con l'intento di stabilire a priori che debba essere soddisfatta - a colpi di decreti ministeriali e di "automatici" adeguamenti della strumentazione urbanistica, come previsto nella legge in discussione alla Camera - in modo conveniente e soprattutto equo con il solo riuso del patrimonio esistente.

Tutto ciò non mette in discussione il fatto che riequilibrare il sistema di relazioni tra lo spazio urbanizzato, le aree libere e le componenti naturali dell'ambiente sia un'esigenza prioritaria, ma impone l'obbligo di farlo senza prescindere da due considerazioni preliminari.

La prima riguarda il fatto che il grosso degli squilibri da fronteggiare è dovuto a quello che è stato già costruito, non a quanto si sta costruendo, e ancor meno a quanto previsto dagli strumenti urbanistici. La seconda pone la necessità di calibrare il tipo d'intervento da adottare anche alla luce del funzionamento e dell'efficacia dei diversi dispositivi istituzionali introdotti per dare un assetto ordinato al territorio, senza rifugiarsi nello schema retorico secondo il quale i fallimenti vanno addebitati al prevalere di voraci operatori privati con la complicità di politici collusi.

Come osservano studiosi dei problemi della pianificazione - non dei "liberisti senza scrupoli" - quali Balducci e Crosta, infatti, è illusorio pensare che il fallimento dei tentativi di riordinare le azioni territoriali sia avvenuto per la mancanza di norme che assicurassero l'effettiva conformazione delle azioni degli attori pubblici e privati alle previsioni dei piani, considerati intrinsecamente buoni, razionali e legittimi. Il tema è complesso, in questa sede è sufficiente segnalare che i diversi tentativi che si sono succeduti, e spesso giustapposti, sono stati sempre ispirati dall'impostazione che Crosta definisce "nomodipendente". Si tratta di un approccio che ha sempre rivendicato leggi e maggiori poteri "sovraordinati" per l'attività di pianificazione, che si è interessato poco ai risultati conseguiti, e che ha risolto, in modo spesso autoassolutorio, i problemi di efficacia con la rivendicazione di un rafforzamento degli effetti giuridici delle previsioni dei piani.

Per questa ragione nel nostro ordinamento si sono imposti, e sovrapposti, sistemi di azione pubblica, come quelli finalizzati alla tutela di alcune componenti naturali dell'ambiente, all'interno dei quali sono stati previsti strumenti di pianificazione (per es. i piani d'assetto, i piani paesaggistici e i Piani del Parco) che, pur essendo settoriali, sono sovraordinati rispetto ai piani urbanistico-territoriali e possono assorbirne le previsioni. Ciò sempre per soddisfare l'esigenza di contare su un piano che definisca, a monte, un assetto ottimale da imporre in modo autoritativo.

Gli estensori e i sostenitori della legge in materia di consumo di suolo, in discussione alla Camera, non sembrano aver fatto i conti con queste necessarie considerazioni preliminari. Il testo, infatti, concentra l'attenzione sul tema del contenimento del consumo "futuro" di suolo, prestando poca attenzione al problema più complesso, del riuso e della messa in sicurezza del patrimonio edilizio e degli insediamenti esistenti. Quanto al metodo, si ripercorre la strada, già altre volte tentata, di riordinare gerarchicamente le azioni territoriali, a partire dall'individuazione quali interessi pubblici prioritari della valorizzazione delle aree agricole e del contenimento del consumo del suolo.

Per questo si affida al Ministero delle Politiche Agricole il compito di condurre un'altra articolata procedura, al termine della quale stabilire e ripartire tra le regioni "la riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo di suolo a livello nazionale" e dunque il tasso percentuale di riduzione (senza precisare rispetto a quale dato di partenza) dell'incremento annuale netto della superficie oggetto di impermeabilizzazione e copertura del suolo, non connessi all'attività agricola.

A differenza degli altri interventi normativi richiamati in precedenza, finalizzati a tutelare beni e interessi pubblici giudicati prevalenti, il legislatore non prevede però l'introduzione nell'ordinamento di un piano di settore sovraordinato rispetto a quello urbanistico o di un meccanismo che subordini la realizzazione di interventi e di azioni ad una procedura autorizzativa, distinta da quella urbanistico-edilizia. La norma si limita a introdurre il meccanismo con il quale fissare, a monte, il termine percentuale in funzione del quale rimodulare l'offerta di piano, prevedendo, un po' approssimativamente, e soprattutto fideisticamente, che "la pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica si adegua alle norme di cui alla presente legge" (art. 1 comma 3), e che le regioni (ciascuna a suo modo, parrebbe) determineranno i criteri e le modalità da rispettare nella pianificazione urbanistica comunale (art. 3 comma 8). Ecco così riproposto anche il meccanismo poco responsabilizzante in base al quale da una parte c'è un soggetto che tutela un determinato interesse pubblico, e dall'altra uno (il comune) con l'onere di incidere sul regime giuridico dei beni, per rendere concreta ed effettiva quella forma di tutela.

Procedendo in questo modo, si introdurrebbe un dispositivo d'azione poco efficace, dai risultati presumibilmente modesti sia ai fini della riduzione della vulnerabilità del patrimonio edilizio e dei sistemi urbani più esposti, sia sul piano di un immediato contenimento dell'uso di suolo non urbanizzato, visto che la procedura per fissare le "quote regionali" è lunga, e l'affidamento all'adeguamento spontaneo, e in ordine sparso, delle regioni e dei comuni, come previsto dalla legge, non ha sempre prodotto buoni frutti.

Ai fini della necessaria razionalità complessiva del sistema, e della credibilità delle sue norme, oltre che della compatibilità con il quadro costituzionale vigente, si consideri, anche, che in base alla legge in discussione, le politiche di sviluppo territoriale, nazionali e regionali, dovranno preoccuparsi della destinazione agricola e dell'utilizzo di pratiche agricole anche negli spazi liberi delle aree urbanizzate (art. 1 comma 4), e che - a regime vigente - il compito di tirare le fila delle azioni pubbliche e private riferite al territorio italiano spetterà al Ministro delle Politiche Agricole, non solo redivivo dopo la consultazione referendaria del 1993, ma anche responsabile politico di una materia riservata, secondo l'art. 117 della Costituzione, alla competenza legislativa residuale delle Regioni.

È, dunque, legittimo pretendere che il legislatore rifletta rispetto alle questioni poste, e tenga in considerazione anche e soprattutto che per wicked questions come quella in discussione, non bastano leggi-manifesto, occorre - come per esempio ha fatto la Germania dalla seconda metà degli anni '90 - una politica pubblica con l'indicazione di un obiettivo quantificato in modo chiaro e comunicabile rispetto a un arco temporale congruo (30 ettari al giorno entro il 2020).

Inoltre saranno necessari lo studio e la sperimentazione di nuovi strumenti operativi, come un mercato dei diritti di edificazione sul modello dell'Emission Trading Scheme, con la progressiva introduzione di modifiche al Codice dell'Edilizia volte a prevedere forme di regolazione e procedure valutative rafforzate per l'attività edilizia all'interno di aree non urbanizzate, nonché di misure volte ad agevolare e semplificare il riuso delle aree libere o dismesse all'interno delle città, e ad intensificare l'utilizzo delle aree già urbanizzate.