logo editorialeIn un tempo in cui l'industria del calcio italiano merita una modernizzazione radicale, per ritrovare competitività, qualità del gioco e interesse da parte del pubblico internazionale, Carlo Tavecchio appare ai più (e non per ragioni anagrafiche) l'esponente di un vecchio e screditato establishment pallonaro, più causa che soluzione del declino. A parte le becere battute sulle banane, che di per sé meriterebbero la rinuncia dell'attuale vicepresidente FIGC alle sue aspirazioni presidenziali, è estremamente criticabile il merito di "policy" della metafora tavecchiana sul calciatore extracomunitario Optì Pobà, che arriverebbe in Italia a rubare il posto ai giovani giocatori nostrani. Si tratta della riproposizione sportiva del solito slogan protezionista, che fa danni in ogni ambito economico e sociale. Una tesi forse buona per i ragionamenti da bar, ma non certo per la persona a cui dovremmo affidare una istituzione così "preziosa" per milioni di italiani come la Federazione Italiana Giuoco Calcio.


Dopo il disgraziato Mondiale 2010, a caccia di illusorie soluzioni rapide a problemi strutturali, il dimissionario presidente Abete impose un tetto al numero di extracomunitari tesserabili dai club italiani: in virtù di quella decisione, oggi le squadre di Serie A non possono averne più di tre, salvo se li acquistano da altre squadre italiane (anche di categoria minore: ciò crea il traffico di extracomunitari utili solo ad aumentare la quota a disposizione dei club maggiori); chi ha già raggiunto il limite massimo, prima di acquistarne due dall'estero deve cederne altrettanti. Illudendosi che così si sarebbe meglio coltivato il vivaio italiano e la Nazionale del domani, il calcio italiano si è autoimposto una enorme zavorra rispetto agli altri principali campionati d'Europa, dove il tesseramento degli extracomunitari è invece liberalizzato.

La Germania campione del Mondo – ad esempio - non ha alcun tetto agli extracomunitari, perché i tedeschi sanno che problemi diversi vanno affrontati con misure distinte: le frontiere aperte servono ai club di prima fascia per pescare i propri atleti dovunque nel mondo, a vantaggio della loro competitività finanziaria e sportiva e dell'attrattività globale del prodotto; la valorizzazione dei campioncini nazionali è invece compito della federazione, che organizza annualmente circa 390 "training camp" in giro per il Paese a caccia di piccoli talenti altrimenti sconosciuti, li allena con tecnici specializzati e li fa conoscere ai club; sempre la federazione impone poi regole sugli investimenti minimi per i vivai ai club di ogni categoria, pena la perdita della licenza. In più, in Germania come in Spagna le squadre giovanili dei maggiori club non partecipano a quel "recinto" chiamato Primavera, ma ai campionati delle serie minori, confrontandosi così con avversari di ogni età, in una competizione con un livello di agonismo e pressione del pubblico molto maggiore di quello dei tornei giovanili.

In Bundesliga, nella Liga o nella innovata Jupiler League belga continuano così a sbocciare giovani talenti fatti in casa, senza che sia posto alcun limite ai calciatori extracomunitari (nella stagione 2013-2014 la Serie A ha avuto meno stranieri della Bundesliga, il 44,8% contro il 46%). Più sono circondati da giocatori di talento, più la loro squadra è competitiva, più è probabile che i giovani crescano e migliorino. Secondo il rapporto demografico CIES 2014, nella classifica dei campionati con più calciatori cresciuti nel proprio club, l'Italia è ultima su 31 con l'8,4%. Il Belgio ne ha il 15,5% e la Germania il 16,6%, quasi il doppio dell'Italia.

Tra i tanti punti a favore della candidatura dello sfidante di Tavecchio, l'ex calciatore del Milan e della Nazionale Demetrio Albertini, c'è anche questo: a fronte delle chiacchiere fumose di Tavecchio, Albertini ha già esposto i punti cruciali del suo programma. Tra questi, insieme al limite a 25 delle rose di Serie A e la riduzione del campionato a 18 squadre, c'è il "modello tedesco": eliminazione del tetto agli extracomunitari, valorizzazione dei vivai, squadre B nei campionati minori, allenatori ad hoc per i giovani.

Purtroppo, salvo sorprese delle prossime ore, con Tavecchio è schierata la grande maggioranza dei delegati chiamati ad eleggere il prossimo presidente FIGC. Lo sostengono i rappresentanti della Lega Nazionale Dilettanti (che hanno ben il 34% dei voti, considerato che il fatturato del business deriva in larga parte dal professionismo) e lo appoggiano molte società di Serie A e la quasi totalità della Serie B. Lo sfidante Albertini gode solo del favore dell'Associazione Italiana Calciatori, dell'Associazione Italiana Arbitri e dell'appoggio di club come Juventus, Roma, Fiorentina e Sampdoria. L'Inter dell'investitore internazionale Thohir, per parlare della società che insieme a Juventus e Roma più insiste per una managerializzazione del governo del calcio, per ora tace e tale silenzio stride con l'approccio "rottamatore" delle prime due forze del campionato. Eppure, è proprio quel che servirebbe al calcio nostrano: uscire dal provincialismo, aprirsi al mercato globale, affidarsi a volti e visioni credibili e innovative.