logo editorialeIl piatto forte del Consiglio Europeo, tenutosi lo scorso fine settimana, è stato la nomina del nuovo presidente della Commissione. Come era prevedibile, alla fine la scelta è caduta su Juncker. L'ex premier lussemburghese, candidato alla presidenza dal partito popolare europeo, era da tempo uno dei “papabili” per questo ruolo, anche se l'affermazione dei partiti euroscettici alle elezioni europee in un primo momento lo aveva messo in difficoltà.

Per la prima volta la scelta di un presidente della Commissione è avvenuta a maggioranza, e non all'unanimità, con voto contrario del Regno Unito e dell'Ungheria. È chiaro che sulla decisione finale del Consiglio c'è stata una trattativa, nel corso della quale i leader hanno cercato di strappare al presidente in pectore promesse e impegni, non solo sulla nomina dei nuovi commissari ma anche sull'orientamento futuro della commissione. Ed è verosimile che le richieste del nostro presidente del consiglio abbiano riguardato principalmente regole e vincoli di bilancio, vincoli che continuano a stare stretti all'Italia, nonostante un ventennio abbondante trascorso ad aggiustare i conti pubblici. Vincoli che in questo momento stanno stretti soprattutto al suo governo.

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È probabile che il Matteo nazionale si sia speso molto su questa richiesta, determinato a portare a casa un risultato che potrebbe rivelarsi vitale per la credibilità del suo governo nel prossimo anno. In un primo momento Renzi sembrava volere appoggiare il premier britannico sul no a Juncker, ma poi si è schierato con la maggioranza guidata da Angela Merkel abbandonando il povero Cameron, politicamente isolato, a fare i conti in casa propria con l'UKIP di Farage, il partito che ha vinto le elezioni europee nel Regno Unito.

È presto per dire se, in cambio, nel prossimo anno o due il nuovo presidente della Commissione concederà a Renzi un occhio di riguardo sui conti pubblici. Può darsi di no, ma può darsi anche di sì. In ogni caso, i toni trionfalistici di queste ore paiono esagerati. Flessibilità in cambio di riforme, ha lasciato intendere Renzi nella conferenza stampa. Ma, esattamente, in cosa consiste questa presunta flessibilità delle regole di bilancio? È qualcosa di nuovo, e soprattutto, è qualcosa di rilevante? E poi, quel che più conta, in cambio di quali riforme?

Si parla di flessibilità del patto di stabilità e crescita da molto tempo. Di fatto, il patto era stato reso “flessibile” già con la riforma del 2005, quella realizzata dopo che Francia e Germania, causa le difficoltà delle loro economie, si erano praticamente auto-concesse la sospensione dai vincoli. Per rendersi conto che non c'è niente di nuovo, basta leggere il testo ufficiale del Consiglio. Dove sta scritto che l'Europa prende atto della elevata disoccupazione e della crescita debole, ma anche dei livelli persistentemente elevati di debito pubblico e della mina derivante dall'invecchiamento della popolazione, e sostiene che il risanamento di bilancio va differenziato in favore di una maggiore crescita economica. Sottolinea, infine, che i paesi devono sfruttare meglio la flessibilità che le norme esistenti del patto di stabilità e crescita consentono già oggi.

Nessuna maggiore flessibilità all'orizzonte, dunque. In realtà, una interpretazione puntuale del documento finale del Consiglio fa venire il dubbio che i vincoli siano ancora maggiori. Il testo della decisione, più che fare concessioni sembra richiedere azioni più concrete e impegnative da parte degli stati membri: in poche parole conseguire il risanamento del bilancio con in più il vincolo di badare all'andamento dell'economia. Di vittoria Renzi avrebbe potuto parlare se il Consiglio si fosse espresso per l'introduzione di vera flessibilità. Per esempio se la spesa per investimenti venisse esclusa dai vincoli di bilancio e gli stati tornassero liberi di investire per realizzare opere pubbliche o infrastrutture. Il dibattito su questo tipo di flessibilità, nota anche come golden rule, è vecchio di decenni. La risposta dell'Europa è sempre stata negativa e se ne comprendono le ragioni. Un grado di discrezionalità eccessivo nelle mani degli stati nazionali, di alcuni stati in particolare, significherebbe permettere alle relative classi politiche, burocratiche e “prenditoriali” di spendere e spandere fino al collasso.

Peraltro, prima di dire che la golden rule sarebbe auspicabile, dobbiamo anche domandarci: quale spesa per investimenti? Stiamo parlando della realizzazione di grandi infrastrutture, utili per l'economia e la società, oppure anche di un mare di piccoli e piccolissimi interventi in gran parte inutili e che servono soltanto a oliare i legami politici e alimentare il consenso politico locale? Basta guardare le statistiche sulla spesa per investimenti in Italia per rendersi conto che la maggior parte è estremamente polverizzata in interventi di piccolo e piccolissimo taglio. Molti dei quali utili, ma nella grande maggioranza spreco e inefficienza. Per non parlare poi delle numerose poste di spesa corrente che diventerebbero magicamente spesa in conto capitale per poter essere escluse dai vincoli di bilancio. In questo senso la golden rule sarebbe uno stimolo favoloso alla creatività contabile.

Di vittoria Renzi avrebbe potuto parlare se il Consiglio si fosse espresso per un complessivo riorientamento della politica economica europea. Se il Consiglio si fosse convinto a imprimere una  svolta “keynesiana” alla politica di bilancio. Ma anche il rilancio della domanda interna europea basato sul deficit spending, cosa alla quale personalmente non credo, sarebbe completamente inefficace se lasciato alla discrezionalità dei singoli stati. È quanto ci suggerisce l'esperienza storica più recente: il “piano per la ripresa economica europea” del 2009, varato come risposta allo scoppio della crisi, fu un fallimento perché si limitò a dare maggiore discrezionalità di bilancio ai singoli stati senza prevedere uno sforzo coordinato. E in Europa non si può fare la politica della domanda se non è la Germania a cominciare per prima accettando quel ruolo di “locomotiva” che fino a oggi ha sempre rifiutato, per ragioni peraltro comprensibili.

Niente di tutto ciò è stato ottenuto da Renzi. Nessuno si illude che pochi decimi di flessibilità ottenuti “sotto-banco” possano essere sufficienti a far ripartire l'economia italiana. Peraltro, ho la sensazione che il risicato margine di flessibilità concesso al presidente del consiglio potrebbe (forse) a malapena  essere sufficiente a evitare una manovra correttiva a ottobre prossimo. Cosa che molti analisti danno già per probabile, visto l'andamento dell'economia peggiore rispetto alle previsioni del governo. Soprattutto, il governo ha bisogno di mantenere in vita lo sgravio fiscale di 80 euro, unica misura concreta, ancorché inutile, realizzata dal giorno del suo insediamento. Una misura che, se l'Europa non dovesse chiudere un occhio, rischia di essere ricordata come una delle tante elargizioni pre elettorali della storia politica italiana.