logo editoriale“Priorità a crescita e lavoro”, si usa ripetere oggi, quasi come se fino a ieri la recessione economica e l’aumento della disoccupazione fossero stati un obiettivo esplicito di politica economica. In realtà, dietro uno slogan così generico si cela un rischio, cioè che ognuno legga in quelle parole quel che preferisce leggere. E qualcuno potrebbe voler tradurre “priorità a crescita e lavoro” in “allentamento delle politiche di rigore sui conti pubblici”, come se la crescita e la ripresa dell’occupazione fossero possibili solo grazie ad uno stimolo della domanda aggregata rappresentato da una maggiore spesa pubblica.

Anche nel documento che il governo italiano ha consegnato a Herman Van Rompuy in vista del vertice dei capi di stato e di governo di giovedì prossimo, e che dovrebbe rappresentare la base del dialogo negoziale tra l’Italia e la Commissione Europea, la frase “Incoraggiare le riforme strutturali a livello nazionale” rischia di essere interpretato da alcuni come una richiesta di lassismo: consentiteci di fare più deficit (“incoraggiare”), dopo molti anni di avanzo primario conseguito prevalentemente con tagli di spesa e aumenti di tassazione.

Bisogna stare molto attenti, perché non usciremo dalla crisi tornando alle vecchie politiche di spesa e debito, ma solo conciliando la responsabilità fiscale faticosamente ritrovata negli ultimi tre anni con un percorso serio di innovazione, efficienza e competitività del sistema produttivo. Più che europea, la sfida che il governo ha di fronte è italo-italiana.

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Molte delle misure di cui l’economia nazionale ha bisogno sono paradossalmente riforme “a costo zero” dal punto di vista finanziario, ma estremamente costose per gli equilibri e i macro e micro assetti di potere della società italiana. Manca da troppo tempo un impegno deciso sul fronte delle liberalizzazioni, dove al contrario si registrano pericolose retromarce (vedi quella sull’orario di apertura degli esercizi commerciali), goffi incartamenti (vedi il pasticcio sui servizi idrici, dopo i referendum del 2011) ed eccessive timidezze (nei confronti dei tassisti anti-Uber, ad esempio, ma soprattutto in materia di contratti di lavoro e di privatizzazioni). Ha ragione poi Romano Prodi quando, dalle pagine del Messaggero, invita il governo Renzi a dotarsi di una strategia industriale tesa a rafforzare la struttura produttiva delle nostre imprese, favorendone la crescita dimensionale, l’internazionalizzazione, l’accesso ad un mercato del credito più maturo e meno bancocentrico, la “spersonalizzazione” e le sinergie sul fronte della ricerca e dell’innovazione.

Non sarebbe poi indifferente se un eventuale maggior deficit fiscale servisse per aumentare la spesa pubblica (per alleggerire la portata della legge Fornero sulle pensioni, come suggerisce qualcuno) o per ridurre la pressione fiscale (ad esempio, per finanziare parzialmente l’abolizione dell’Irap, come ha suggerito Lorenzo Bini Smaghi). Nel primo caso daremmo agli investitori internazionali un pericoloso messaggio di irresponsabilità e miopia, nel secondo lanceremmo invece una credibile scommessa supply-side: nel giro di qualche anno, la misura riuscirebbe con buone probabilità ad autofinanziarsi. Avanza l’ipotesi che si possa strappare a Bruxelles uno scomputo della spesa per investimenti dal calcolo del deficit, ma sul punto sarebbe opportuno aprire una seria e profonda riflessione nazionale: di quali investimenti pubblici abbiamo realmente bisogno? Non certo di nuovi Mose, né di cattedrali nel deserto, ma di infrastrutture giustificate da una domanda già esistente o capaci – è il caso della banda larga – di correggere un pericoloso gap tecnologico che l’Italia sta drammaticamente accumulando.

Insomma, la carne al fuoco è tantissima, troppa per un sistema politico abituato da molti anni a vivere alla giornata, condizionato dai titoloni sui giornali, dalle roboanti dichiarazioni d’agenzia e dai sondaggi settimanali. Avendo abusato e distorto il concetto di “stabilità”, è bene riferirsi a quello di “lungimiranza”. Non pretendiamo che governo e parlamento guardino proprio alle prossime generazioni, come suggeriva Einaudi: ci accontenteremmo dell’orizzonte di una legislatura.