logo editorialeA ogni elezione, la sua pena. La Costituzione reale assegna ormai alla Consulta un ruolo politico di garanzia sul diritto elettorale. Non che la cosa, oltre a risolvere in teoria dei problemi, non ne comporti in pratica dei nuovi. Ad esempio nella non perfetta corrispondenza tra l'evoluzione dei principi - quelli che hanno portato ad ammettere, di fatto, un ricorso quasi-diretto alla Corte sul Porcellum e hanno spianato la strada alla decisione di oggi del Tribunale di Venezia - e le conseguenze politico-istituzionali di questa legislazione di complemento.

Sulla legge elettorale nazionale abbiamo visto infatti come una sentenza "nucleare" abbia buttato giù le norme illegittime, ma tenuto in piedi il Parlamento che ne era stato generato, senza alcuna redistribuzione dei seggi assegnati in forza di un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. "Scasare" parlamentari proclamati e convalidati contro la volontà del Parlamento non è così facile e probabilmente neppure possibile. Allo stesso modo, c'è da attendersi che un pronuncia negativa sulla legge relativa alle elezioni europee non avrebbe di fatto alcuna conseguenza sugli eletti (e i non eletti) del 25 maggio. Nondimeno renderebbe il nostro paese un unicum planetario, rappresentato a Roma e a Bruxelles da una cospicua quota di parlamentari abusivi.

Se questo è però il quadro che emerge dalle fughe in avanti della Consulta, ci sono però anche (e prima) da valutare i ritardi e le marce indietro delle forze politiche, che nell'ultimo ventennio hanno trasformato la legislazione elettorale in un monumento del diritto à la carte, in un groviglio di rendite e di trappole, in un tutti-contro-tutti tra amici e nemici. Nulla come le leggi elettorali sembra concepito non per regolare qualcosa, ma per fottere qualcuno. Quella sulle europee è un esempio paradigmatico di questa "malattia".

L'Italia nel 2009, in piena controtendenza con gli indirizzi della normativa europea, ha fissato per le elezioni del Parlamento di Bruxelles uno sbarramento "rigido" al 4%, quando alla Camera e al Senato lo sbarramento reale era mediamente inferiore (rispettivamente il 2% e il 3% per le forze coalizzate). Nell'elezione in cui l'Ue impone di non pregiudicare il carattere proporzionale del voto e la funzione degli eletti è massimamente rappresentativa, l'Italia ha paradossalmente alzato lo sbarramento. Perchè? Perché nel quadro semi-bipartitico uscito alle urne nel 2008 PD e PdL avevano deciso di "papparsi" i seggi delle forze minori, e hanno imposto uno sbarramento che non aveva nessuna giustificazione istituzionale, non potendosi neppure lontanamente collegare con il principio di governabilità, e già mostrava numerose controindicazioni, sia rispetto all'ordinamento interno che a quello europeo.

Pochi mesi fa la questione è tornata in auge, dopo che la Corte di Karlsruhe aveva cancellato un analogo sbarramento dalla legge tedesca e la Consulta si era pronunciata sul Porcellum. Anche in quel caso, la coppia Renzi-Berlusconi fece spallucce, come quella Veltroni-Berlusconi cinque anni prima. E ora? Che fa il governo? Dice agli italiani "voi votate, poi vediamo..."? Oppure dà prova di responsabilità e prova a aggiustare l'aggiustabile con un decreto legge? Ci vuole coraggio, certo; la scelta è giuridicamente problematica e qualcuno griderebbe al colpo di Stato. Ma nell'alternativa tra il male e il peggio, il peggio è non far niente, lavarsene le mani e aspettare che sia la Corte magari a concludere - come sul Porcellum - che sì, la legge è incostituzionale, ma anche questa volta è andata così e non ci si può fare nulla.

@carmelopalma