logo editorialeDopo 8 anni di stato vegetativo è morto Ariel Sharon, il generale, il "falco", l'eroe nazionale israeliano. Ma, negli ultimi tempi della sua vita, anche l'uomo del dialogo e della pacificazione, l'uomo in grado di "riconfigurare" il panorama politico israeliano con un'offerta nuova ed avanzata.

Per molti anni, in effetti, Sharon è stato uno dei simboli del successo militare dello Stato ebraico, della straordinaria efficacia del Davide israeliano contro il Golia rappresentato da tutti i paesi arabi confinanti.
Nell'esercito, ha un'importante posizione di comando nella Guerra dei Sei Giorni e successivamente gioca un ruolo fondamentale nel successo di Israele nella Guerra del Kippur. Dalla vita militare passa alla politica, diviene uno dei principali esponenti della destra israeliana, il Likud, ed è Ministro della Difesa nella delicata fase della guerra in Libano nel 1992.

Dalla sua visita alla Spianata delle Moschee scaturirà nel 2000 la "seconda intifada", scatenata dal leader palestinese Yasser Arafat che farà così collassare gli accordi di Oslo. Diviene primo ministro nel 2001 ed in tale veste, a dispetto delle previsioni di molti, fuoriesce dagli schemi più scontati della politica nazionale e si fa promotore di una serie di scelte politiche di notevole significato, dal sostegno alla "road map per la pace" elaborata da Stati Uniti, Unione Europea e Russia, al disimpegno unilaterale della Striscia di Gaza, fino alla fondazione del nuovo partito Kadima, con l'obiettivo di guadagnare un consenso politico trasversale in Israele per una soluzione negoziale alla questione dei rapporti con i palestinesi.

"Arik" è senza dubbio una figura controversa.
La propaganda palestinese gli rimprovera la presunta responsabilità nel massacro di Sabra e Shatila, compiuto in Libano dalle milizie cristiano-maronite.
Ma anche nella destra israeliana Sharon ha i suoi nemici, tra coloro che non gli perdonano il ritiro da Gaza, con l'esodo forzato dei coloni che lì si erano insediati.

Non è facile, a distanza di un decennio, tracciare un bilancio della scelta strategica di abbandonare la Striscia; certamente non ha innescato quel circuito virtuoso di "passi indietro" che avrebbe dovuto condurre ad una pace duratura. Anzi ha portato alla presa del potere a Gaza da parte degli estremisti di Hamas.
Al tempo stesso, tuttavia, è stato un atto di realismo. Da un lato i costi politici, economici e militari di presidiare la Striscia erano superiori al vantaggio strategico che per Israele poteva derivarne – dall'altro il disimpegno deciso da Sharon ha guadagnato credito internazionale per Israele, rinsaldando l'indispensabile sostegno dei tradizionali alleati. Lo provano le parole di elogio spese da tanti leader del mondo occidentale per il ruolo svolto dall'ex premier.

Come Ronald Reagan, F.W. De Klerk e David Trimble, Ariel Sharon è stato un conservatore che ha compreso che le condizioni globali erano propizie per un'iniziativa di dialogo e di disgelo. Il problema è stato che Sharon ed il suo successore Ehud Olmert non hanno trovato alcuna credibile controparte politica per la loro iniziativa. Dall'altra parte non c'era un Mikhail Gorbaciov, non c'era un Nelson Mandela, non c'era un John Hume (e nemmeno un Gerry Adams) – cioè politici che avevano compreso che la pura contrapposizione ideologica, pur fornendo loro indubbie rendite politiche, non era più un'opzione sostenibile.

La leadership palestinese, purtroppo, ha scelto di tenere il proprio popolo ostaggio di una spirale inestricabile di odio e di conflitto – di un percorso politico senza sbocchi plausibili. Anziché offrire alla propria gente i vantaggi economici e sociali che verrebbero da una pace certa, hanno preferito cibare le masse palestinesi del sogno di una futura "vittoria".

Nel processo di pace Sharon ha fatto quello che ha potuto e non è facile prevedere come avrebbe gestito le fasi politiche successive senza l'ictus del 2006. Purtroppo per fare la pace bisogna essere in due e tra i palestinesi non è ancora emerso un leader che si senta addosso la responsabilità umana, morale e storica di mettere fine al lunghissimo conflitto.

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