logo editorialeLa proroga dell'entrata in vigore della cosiddetta Web Tax, non più a gennaio ma a luglio 2014, è un'amara buona notizia per chi si è opposto pubblicamente all'adozione di un provvedimento incomprensibile economicamente e giuridicamente.

Buona perché la traslazione di sei mesi è il segnale dell'imbarazzo di Enrico Letta per una norma imposta da esponenti parlamentari di primo piano del PD, ma che il premier non ha mai spalleggiato: troppo evidente l'incompatibilità con il diritto UE e l'impraticabilità di quell'obbligo per gli operatori del web di dotarsi di partita IVA italiana per la vendita di pubblicità.

Amara perché l'intera vicenda (la misura fa capolino a settembre nel ddl di delega fiscale, poi come emendamento alla Stabilità, la levata di scudi interna ed internazionale, la correzione in corso d'opera, ora la proroga temporale) è l'ennesima prova della schizofrenia legislativa italiana. Nel numero di dicembre del mensile di Strade abbiamo pubblicato un'interessante riflessione di Riccardo Puglisi sul costo dell'incertezza delle politiche: la saga imbarazzante della Web Tax segue i patetici tira-e-molla sull'IMU e sull'IVA, ma anche la sempiterna discussione sulla legge elettorale, sulle riforme istituzionali, sul mercato del lavoro e su mille altri dossier. Investireste mai in un paese che non assicura alcuna stabilità del quadro regolatorio e fiscale? Questa è davvero la terra dei cachi.

Restando alla Web Tax, lo spostamento a luglio è probabilmente l'anticamera per la soffitta e il dimenticatoio. Una norma approvata, ma i cui effetti sono posticipati di sei mesi, consente alla Commissione Europea di intervenire esplicitamente ed evocare una possibile procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia. Non mancherà tuttavia la levata di scudi contro le "perfide" multinazionali del web da parte dei novelli protezionisti, le cui tesi avranno ampio risalto sulla stampa italiana, i cui editori vedono nella Web Tax la possibilità di contendere un pezzo di fatturato pubblicitario ai grandi attori globali. Aspettiamoci altre fiammate del dibattito, petti gonfi contro lo straniero e dotte analisi contro le imprese del web che non pagano tasse a sufficienza all'erario italiano. Pochissimi, purtroppo, porranno la questione nei termini corretti: non si può riavvolgere il nastro della storia e della tecnologia, l'Italia ha bisogno di imprese che competano globalmente, non di una politica che prova goffamente a difendere il piccolo orticello delle aziende di establishment, incapaci di operare su scala sovranazionali.