logo editorialePerché Roma Capitale va salvata a spese dei contribuenti italiani? In un paese che negli ultimi anni ha visto una miriade di imprese private fallite o costrette a dolorose ristrutturazioni, con licenziamenti penosi, continua ad affermarsi il principio della "illicenziabilità" dei dirigenti e dei dipendenti pubblici e quello della irresponsabilità amministrativa. Nessuno può seriamente accusare il sindaco Marino (in carica da pochi mesi), ma nessuna parte politica è esente da colpe, né il centrodestra che ha governato Roma dal 2008 alla primavera del 2013, né il centrosinistra che ha retto la città ininterrottamente dal 1993 al 2008 (salvo i pochi mesi delle gestioni commissariali, subentrate ai due sindaci dimessisi per candidarsi a premier, Rutelli nel 2001 e Veltroni nel 2008).

La politica capitolina non può essere definita "locale", per dimensioni della città e impatto che essa ha sull'intero sistema nazionale, eppure nelle sue dinamiche e in molti suoi protagonisti essa appare purtroppo estremamente provinciale e priva di quel respiro cosmopolita che l'Urbe merita. L'amministrazione della capitale è un parassita della politica nazionale, di cui frequenta quotidianamente gli uffici e dalla quale da decenni riceve sussidi e prebende. Perché la grande crisi che stiamo vivendo non può essere la leva per una rottura rispetto a questo indegno passato?

Lasciare l'amministrazione comunale alle sue responsabilità, accettare anche un eventuale fallimento dell'ente, imporre una seria correzione di rotta sulle spese e sulla gestione dei servizi, riconoscere l'inevitabilità di un piano di massicce dismissioni di patrimonio pubblico (a cominciare da Acea), gestire con intelligenza la riduzione del personale. Queste dovrebbero essere le misure di un provvedimento "Salva Roma". Se nulla cambia, se per l'ennesima volta la "specialità" della città eterna verrà usata come paravento per misure di lassismo fiscale e finanziario, Roma non verrà salvata, ma condannata ad essere quel che non merita di essere.