Le questioni di sicurezza diventano, sempre più chiaramente, questioni 'esistenziali' di identità. Ma è possibile affrontarle in modo efficiente solo contrastando il processo di rinazionalizzazione della politica europea. La difesa comune - un’idea che rimanda agli albori della costruzione comunitaria - rappresenta un volano del processo di integrazione dell’Ue. Una scommessa ambiziosa sotto il profilo militare, tecnologico e industriale, e un possibile terreno di cooperazione e confronto con un Regno Unito che non sa più come uscire dalla trappola della Brexit.

Della Vedova Uemani

Ripartire da dove eravamo partiti. L’idea di una difesa europea comune, come noto, viene da lontano, dal progetto negoziato e poi tramontato della CED, all’inizio degli anni ‘50 dello scorso secolo. Gli stessi estensori del manifesto di Ventotene, del resto, vedevano gli Stati Uniti d’Europa (anche) come un progetto volto a depotenziare attraverso una fusione i singoli complessi industrial-militari che avrebbero potuto rinfocolare le ostilità nazionaliste alla base delle tragedie belliche che avevano devastato il vecchio continente nella prima metà del ‘900.

A distanza di settant’anni il tema di una difesa comune europea si ripropone con forza. Le ragioni sono molto diverse: gli interessi e i gruppi militar-industriali dei singoli Paesi non vengono più visti come constituency economiche e politiche in grado di riportare la guerra in Europa (a questo sembrano purtroppo lavorare, più o meno consapevolmente, i gruppi politici neonazionalisti ed antieuropei), ma come apparati disfunzionali, non in grado cioè di garantire ai cittadini europei il “value for money” in termini di sicurezza rispetto agli investimenti. La difesa comune può essere oggi un progetto che incrocia l’obiettivo di proseguire l’integrazione con la funzionalità, la dimensione politica e simbolica con quella dell’efficienza, la politics con le policies della sicurezza.

Un progetto che adeguatamente spiegato può trovare forte consenso nei cittadini che colgono con inquietudine la fragilità di sistemi di protezione frammentati, magari orientati alla competizione prima che alla cooperazione, di fronte ad attacchi che possono colpire indistintamente Madrid, Bruxelles o Parigi o qualunque capitale e area del continente. In più, la percezione del ritiro, forse al momento ancora più psicologico che effettivo, dello zio Sam dai teatri di conflitto che toccano più da vicino l’Europa e ne minano la sicurezza reale e “percepita” mette in evidenza l’irrilevanza o l’insufficienza, se non in posizione gregaria, delle tante forze armate europee, anche le più strutturate.

La stessa polemica americana sulla necessità di riequilibrare la spesa militare sulle due sponde dell’Atlantico offre una spinta ulteriore a rivedere l’assetto e l’efficacia del dispositivo difensivo dei 28 o 27. Trump ha reiterato con spirito antagonista e sgrammaticato - lo stile che tanto piace a molti che detestano l’Europa politically correct e preferiscono l’uncorrect comunque si manifesti - quanto già altri presidenti avevano richiesto, da ultimo Obama, pur con spirito cooperativo e rispettoso delle istituzioni terze.

Credo che gli Usa abbiano oggi torto nel presentare come una sorta di investimento a fondo perduto il dispositivo di sicurezza a favore dell’Europa dispiegato nei decenni a difesa del vecchio continente. Per tante ragioni, ma certamente anche perché quell’investimento ha rappresentato una delle ragioni della supremazia americana durata decenni, con grandi e meritati benefici economici. Penso però che gli Usa abbiano ragione a chiedere un crescente empowerment europeo sulla difesa. Come ha detto, del resto, la Merkel dopo il G7 di Taormina: gli europei devono prendere il proprio destino nelle proprie mani, e questo vale in primo luogo sulla sicurezza e la difesa, che non possono più apparire o essere delegate a Paesi alleati, a maggior ragione poiché la Nato, per ragioni in larga misura esterne e indipendenti dai processi politico-istituzionali del vecchio continente, è chiamata ad affrontare tensioni interne e a riconsiderare il senso della propria architettura geografica e funzione storica, venuto meno il “bipolarismo militare” legato agli equilibri di Yalta.

Non penso però che l’Ue dovrebbe assumere un atteggiamento antagonistico o strumentalmente polemico nei confronti degli Usa o riconsiderare il senso del proprio ancoraggio atlantico, che è politico-culturale, prima che strategico-militare. Per me rimangono di ispirazione le parole di Pannella sugli “Stati Uniti d’Europa e d’America” come proiezione “espansiva” del federalismo europeo, che già nella riflessione di Spinelli, Rossi e Colorni aveva un orizzonte globale e che può oggi ridisegnare i lineamenti di una rinnovata unità e cooperazione politica occidentale. Un inedito equilibrio militare all’interno della Nato può dunque essere alla portata di un’Unione che si muove verso una politica comune di difesa, nell’interesse delle due sponde dell’Atlantico.

Le conclusioni del Consiglio europeo del 22 e 23 giugno scorsi hanno rappresentato un salto in avanti, per ora in termini programmatici, molto importante. Se si tratti davvero di un passo storico, come proclamato dal Presidente Tusk, lo vedremo nei prossimi mesi. Da una parte viene prevista l’istituzione di un fondo comune per promuovere tanto la ricerca quanto la capacità in campo militare. Si fa riferimento in modo esplicito alla necessità di una cooperazione industriale nel settore della difesa, con attenzione allo spazio per le PMI. Dall’altra il Consiglio ha concordato sulla necessità, entro la cornice degli impegni Nato e ONU, di attivare una Cooperazione Strutturata Permanente (Permanent Structured Cooperation - PESCO), prevista dal trattato di Lisbona e mai attivata. Entro tre mesi gli stati dovranno definire impegni e criteri, in modo da garantire ai Paesi membri che intendano partecipare alla cooperazione di comunicare il proprio impegno.

È il caso di dire che, forse, l’Europa che protegge di cui aveva parlato Macron si è messa in marcia. I temi della sicurezza, che sono avvertiti non solo come problemi di incolumità, ma come questioni “esistenziali” di identità da un’opinione pubblica preda di un senso incombente di minaccia, possono aiutare a definire una nuova identità europea e un nuovo patto politico tra i cittadini europei e le loro istituzioni.

Questo progetto riparte, sulla carta, senza la principale potenza militare del continente, la Gran Bretagna, impegnata a negoziare la Brexit. Anzi, qualcuno ha anche sostenuto che questo scatto sia la conseguenza della decisione di Londra, che avrebbe reso da un lato più semplice e dall’altro più impellente un salto di qualità verso una difesa comune tutta da concepire, sul piano politico, istituzionale ed industriale.

Può darsi che sia così e che la Brexit abbia provocato una spinta positiva alla coesione di chi resta. Anzi, credo sia proprio così: la Brexit, ad un anno dal referendum, ha finito per rafforzare e non indebolire l’integrazione, e i passi avanti sulla difesa ne sono il segno più importante, innanzitutto sul piano simbolico. È però chiaro, anche per chi come me ha ritenuto la campagna per la Brexit un errore imperdonabile di una classe politica che non capiva o fingeva di non capire quale fosse il gioco a cui stava giocando, che alla fine saremo tutti più deboli.

Molto più deboli e poco rilevanti “loro”, rinchiusi nella loro insularità e fieri di una ripresa di controllo destinata a rivelarsi sempre più effimera, quando si passa dagli slogan del pifferaio Farage alla dura realtà del negoziato per lasciare l’Unione e il Mercato Unico. Ma un poco più deboli anche “noi” che restiamo, anche se abbiamo reagito, con orgoglio e vigore, soprattutto grazie alla vittoria di Macron. Almeno fino ad oggi ed in attesa delle elezioni italiane, che ancora vedono un forte schieramento anti-europeo e un silente o timido schieramento europeista più incline a incolpare che a difendere l’Ue.

Londra, infatti, restava un efficace pungolo al completamento del mercato unico e una forza politico-militare ancora rilevante sul piano internazionale, anche se molto meno di quanto i nazionalisti nostalgici d’Oltremanica continuano a pensare. Per questo, anche per questo, penso che il negoziato con Londra debba essere condotto in modo rigoroso e senza cedimenti che possano annacquare la benzina nel motore di Bruxelles, che sembra riprendere il cammino verso la “ever closer union”.

Ma per questo, anche per questo, penso che forti della rinnovata spinta dovremmo giocare fino all’ultimo la politica della porta aperta nel caso di una riconsiderazione da parte del Regno Unito della decisione di andarsene. Se la democrazia non consentisse di ribaltare democraticamente decisioni che si scoprono avere risultati assai diversi da quelli cercati, che democrazia sarebbe?

@bendellavedova