Che questi sarebbero stati gli anni del "sogno cinese", il presidente Xi Jinping lo aveva promesso ai suoi concittadini inaugurando il suo mandato al vertice della Repubblica Popolare. E come se non bastasse la realtà di un paese passato in tempi brevi dalle macerie del maoismo agli allori del rango di superpotenza globale, i cinesi sognano oggi la Luna. 

Lunedì, alle ore 1:30 del mattino, dalla base di Xichang nella provincia sudoccidentale del Sichuan, ha preso il volo la sonda "Chang'E 3" che atterrerà - data prevista, 14 dicembre - nella valle lunare del Sinus Iridum, dove sarà liberato il piccolo Yu Tu, "Coniglio di Giada", primo rover cinese. Nomi leziosi ma grandi e lucide ambizioni.

Non è certamente un caso che tutto ciò avvenga mentre il premier britannico David Cameron, leader del paese che con le poco encomiabili "guerre dell'oppio" diede il colpo di grazia al traballante impero Qing aprendo il secolo orribile della Cina - arriva a Shanghai promettendo di essere "il miglior avvocato della Rpc in Occidente".

Nè è un caso che il volo di Chang'E sia iniziato a poche settimane di distanza dal terzo plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese, e dalla conseguente diffusione di una sostanziosa agenda di riforme che, "tenendo alto il magnifico vessillo del Socialismo alla cinese" e "facendosi guidare dal marxismo-leninismo, dal pensiero di Mao e dalle teorie di Deng Xiaoping", promette di "liberare le forze produttive del Paese", di dare "più spazio al mercato" e di "sostenere lo sviluppo, la vitalità e la creatività delle imprese non pubbliche". Messaggio "rivoluzionario" solo all'apparenza, dacché l'unica vera ideologia che dà forma alle politiche elaborate a Pechino è l'antico pragmatismo sul quale si è costruito una millenaria struttura di potere, le cui impalcature ancora reggono, nonostante tutto, sotto un sempre più sbiadito strato di vernice rossa. "Basta che il gatto acchiappi il topo", diceva Deng, e non ci sono problemi di "coerenza ideologica" se quel che conta è rimettere la Cina lì dove è stata per secoli: nel novero ristretto delle grandi potenze. Difficile ma non impossibile, se ci si può permettere il lusso della "lunga durata".

Certo, le incognite davanti a Xi sono tante e non di poco conto, a partire dalla vera bomba a orologeria che minaccia di creare problemi ai vertici del Pcc, che non è la questione della "democrazia" o dei "diritti", come ci piace pensare, ma la tragedia ambientale, frutto di uno sviluppo forse troppo grandioso e accelerato, che sta devastando la Cina.

E, certo, la vicepremier Liu Yandong in visita a Washington potrà pure citare Lincoln e paragonare il sogno promesso dai nuovi mandarini all'American dream che ha dato forma e sostanza al Novecento, ma il "modello cinese", che miete favori nelle aree in via di sviluppo (l'Africa, soprattutto), è ancora lontano da quell'aura di "appetibilità universale" che ha permesso agli Stati Uniti di essere quel che sono: se la figlia di Xi studia negli Usa, è difficile credere che le figlie di Obama si iscriveranno all'Università di Pechino, per dire.

Ma il "chinese dream" inizia a smontare le certezze dell'Occidente, dalla convinzione che senza democrazia non c'è benessere all'idea che "democrazia" e "rappresentatività" siano la stessa cosa. È una sfida velenosa, questa, che arriva insieme a un inesorabile aggiustamento degli equilibri globali, ma che è ancora più profonda. E se l'America sembra essere comunque più pronta a raccogliere la sfida per restare al centro del mondo, la vittima predestinata dei nuovi equilibri mondiali pare essere l'Europa, incapace di produrre un qualsivoglia sogno che non siano i parametri di Maastricht (o il loro sforamento, a seconda dei casi). Per tacere di un Paese in particolare che, mentre a Pechino si smantella il comunismo, non riesce a smontare una legge elettorale.