La non-riforma della legge elettorale è al tempo stesso una garanzia sulla durata dell'esecutivo e della legislatura e un certificato della non-esistenza in vita della maggioranza di medie intese sopravvissuta allo strappo del Caimano. Ieri, tanto per non sbagliare, la Commissione affari costituzionali del Senato ha rinviato, per l'ennesima volta, il voto sull'ordine del giorno leghista che (ne avevamo già parlato) riproduce di fatto la proposta renziana (Mattarellum + premio di maggioranza).

Oggi invece la Corte Costituzionale si riunisce per deliberare sull'ammissibilità di un ricorso che chiede, nella sostanza, di "costituzionalizzare" il Porcellum ponendo una soglia di accesso al premio di maggioranza per la coalizione vincente e derivando dallo schema della cosiddetta lista bloccata un sistema di voto diretto dei candidati. Tra le ipotesi, c'è quella che la Consulta aggiusti il Porcellum ripristinando di fatto il proporzionale con preferenze o lo cancelli resuscitando il Mattarellum. Le due "riforme" a portata di Consulta – che non può liberamente legiferare, come il Parlamento – sarebbe cioè il riciclaggio della penultima o terzultima legge elettorale. Insomma, si potrebbe andare avanti tornando indietro di una o due caselle. E si tratta comunque di due opzioni opposte, quanto agli esiti politici. Catastrofica, la prima. Quasi ottimale, rebus sic stantibus, la seconda.

Tutti i partiti, comunque, si muovono sul tema della riforma elettorale con una logica razionale, tranne i due maggiori. A Grillo il Porcellum va benone, perché consolida il sistema tripolare, che una dinamica più maggioritaria (si pensi a comuni e regioni) invece irresistibilmente bipolarizza. Alfano vuole una legge che obblighi Berlusconi a tollerarlo e offra alle sue truppe moderate, comunque, una nicchia istituzionale garantita, che sia fuori o dentro o nei pressi della casa comune berlusconiana. Stesso discorso, di fatto, per Casini e Mauro. Il Porcellum, dunque, calza loro a pennello. Per ragioni diverse, invece, Sel, Lega e Scelta Civica – le forze che la logica tripolare marginalizza ed elettoralmente consuma – propendono per sistemi che ribipolarizzino il gioco politico e valorizzino il loro residuo potere di coalizione. Tutto razionale e comprensibile.

A essere irrazionale e incomprensibile è invece l'irresolutezza del Pd e il surplace di FI. Partiamo da quest'ultima. In linea teorica, è vero che il Porcellum, come i sondaggi testimoniano, potrebbe regalare al centro-destra plurale una maggioranza numerica alla Camera, ma consegnerebbe ad Alfano la golden share della coalizione e lo lascerebbe libero di muoversi in una logica "governista" a cavallo dei confini tra maggioranza e opposizione. È quello che Berlusconi vuole? Non so, ma oggettivamente non è quanto gli conviene.

E che dire del Pd? Obbedire, masticando amaro, ai ricatti di Alfano e Quagliariello e alla moral suasion del Quirinale sulla tenuta della compagine di governo alla fine né rafforza, né legittima quello che la situazione rende, di fatto, il partito più esposto ai fallimenti dell'esecutivo. Per quanto tempo Renzi, che le primarie incoroneranno segretario, ma padrone a metà del Pd, potrà accettare di internalizzare tutti i costi e di esternalizzare tutti i benefici della cosiddetta "stabilità"? Che senso ha sacrificare una maggioranza a portata di mano sul Mattarellum, non solo alla Camera, ma anche al Senato, per non indisporre Alfano?

Insomma, si può dire che la non-riforma elettorale, più che della resistenza prevedibile dei rentier del Porcellum, deriva innanzitutto dalle non-scelte di Pd e FI, che sarebbero, alla resa dei conti, anche i primi a pagarne il conto.