logo editorialeLe democrazie nel mondo funzionano in genere con almeno due grandi partiti-sistema, intorno ai quali direttamente o indirettamente interagiscono le altre formazioni. A maggioritarizzare la competizione democratica non è solo l'incentivo del sistema elettorale – che sensibilmente varia tra modelli maggioritari a proporzionali – ma la struttura del sistema politico.

In Italia, la maggioritarizzazione coatta del sistema di voto (il sigillo formale della Seconda Repubblica) non ha però prodotto partiti maggioritari, ma conformato allo schema bipolare la polverizzazione politica conseguente alla fine della cosiddetta democrazia dei partiti. Così a "fare sistema" non sono due grandi partiti, ma un post-partito di sinistra, un non-partito di destra e un anti-partito trasversale (anche più ampio dei confini elettorali del M5S) culturalmente egemone, capace di dare il tono che fa la musica del discorso pubblico e di condizionare l'agenda alla politica istituzionale.

Alla presidenzializzazione e la democratizzazione dei partiti – i due grandi processi della politica contemporanea, legati alla diffusione di modelli più individualistici di leadership e militanza – in Italia sembra contrapporsi un modello di democrazia senza partiti e senza politica, un ideale di autogoverno diretto e antirappresentativo della società civile, che rottama secoli di letteratura politologica e aggiorna gli antichi e oscuri fasti dell'antiparlamentarismo "patriottico".

L'Italia insomma vorrebbe uscire a marcia indietro dalla crisi di sistema, non rimediando, ma contribuendo ad aggravare l'inefficienza delle istituzioni e non aggiustando, ma rompendo definitivamente il giocattolo della politica come politikè techne, in nome di un volontarismo disinteressato e dilettantistico, che dovrebbe assicurare l'effettiva imparzialità del governo. Il senso comune democratico, anche nei partiti ufficiali, è oggi dominato da questa anticultura antipolitica, che vorrebbe superare i partiti e liberarsene, per giungere al "vero" interesse generale.

Ovviamente, come l'Italia dovrebbe avere già imparato (e tornerà a imparare) a sue spese, una democrazia senza partiti non solo non è possibile, ma non è neppure democratica. Una riforma dei partiti ovviamente è necessaria, ma una riflessione limitata al come e non al cosa (al loro modello formale e non alla funzione reale) risulta sempre più insufficiente.

Le traversie del tesseramento del Pd – che è pur sempre l'unico soggetto politico italiano come una realtà almeno teoricamente partitica – dimostra che il "partito delle tessere" in Italia non è più un opzione politicamente praticabile, né a sinistra, né altrove. Le tessere sono, a tutti gli effetti, un fattore di spoliticizzazione della vita dei partiti. Non portano idee, né consenso, ma regolano i rapporti di forza secondo "quantità" legate all'insediamento e all'influenza dei partiti (e dei loro più influenti capibastone) nel sistema di potere locale.

D'altra parte, i "partiti-gazebo" che il giorno del voto aprono bottega al "pubblico" (letteralmente: ai passanti interessati disposti a pagare due euro e a sopportare il disturbo di una brevissima attesa) per richiuderla un attimo dopo, incoronando il vincitore, sono sistemi efficienti di produzione delle idee di governo e di competizione tra leadership alternative? Sinceramente, c'è da dubitarne.

Se il tesseramento dei partiti italiani è, pressoché ovunque, un mercato di anime morte e le cosiddette primarie, all'estremo opposto, un sistema di elezione senza base elettorale predeterminata (un sistema senza uguali né paragoni nelle democrazie occidentali – e ci sarà un perché), il problema non è forse che in Italia la riflessione su cosa debbano (e possano) essere i partiti politici come infrastruttura democratica è considerata anch'essa, molto colpevolmente, "superata"?