logo editorialeSui referendum radicali sulla giustizia, resuscitati in extremis dall’endorsement di un Berlusconi definitivamente condannato e dunque finalmente liberato dalla necessità di anteporre il “vivere” giudiziario al “philosophari” politico, si potrebbero fronteggiare nella prossima primavera (Cassazione e Consulta permettendo) schieramenti molto diversi da quelli previsti. E l’esito, altrimenti segnato, di un voto più libero e trasversale potrebbe riservare positive sorprese.

La Giustizia (non nel senso del concetto, ma del soggetto rappresentato dal cosiddetto “partito dei giudici”) è stata per la sinistra, in tutta la Seconda Repubblica, ciò che l’Unione Sovietica è stata per il PCI per buona parte della Prima: un alleato ingombrante ma obbligato, un superiore ideologico imbarazzante e anacronistico, ma oggettivamente affratellato dalla lotta contro il nemico comune, la democrazia capitalistica per il PCI, e quella berlusconiana per la sinistra post-comunista. La sinistra figlia di Mani Pulite, come quella figlia della Rivoluzione d’Ottobre, arriva al parricidio tardi e male, ma, finalmente, pare arrivarci.

A cambiare registro non è stato solo Renzi, che ha fiutato l’aria e compreso che il giudizio popolare sulla qualità della giustizia non è più né favorevole, né indulgente, e ha scelto di patrocinare la misura più ostile e scandalosa, quella della responsabilità civile dei magistrati. Anche Cuperlo e molti altri dirigenti di primo piano parlano ora in maniera più disinvolta di problemi prima negati e di riforme prima interdette, così “sporcando” l’immagine del Pd come cane da guardia dello status quo e cinghia di trasmissione tra l’ANM e le istituzioni.

I problemi della giustizia italiana non sono meramente organizzativi, ma politici. La lunga stagione berlusconiana, in cui il garantismo di lotta e il panpenalismo di governo hanno coabitato sotto lo stesso tetto, dividendo i sommersi e i salvati secondo una logica di classe o di contiguità politico-affaristica, ha obiettivamente screditato le velleità dei riformatori – che stanno pagando ben più del Cav. l’equivoca adesione a un “riformismo su misura” – e giustificato l’eroismo dei conservatori.

L’apertura, perlomeno formale, della stagione post-berlusconiana cambia le coordinate del discorso e autorizza, anche a sinistra, una riflessione critica sulla natura e sulla cultura di una Giustizia concepita come contropotere e chiamata a esercitare un ruolo di garanzia costituzionale (cioè politica) che esorbita dai compiti della giurisdizione penale.

L’innamoramento fanatico per una Giustizia “giustiziera” – da Tonino Di Pietro a Giggino ‘a Manetta, per arrivare al fascio-qualunquismo di massa del partito grillino – ha poi procurato così tanti guai ed emorragie elettorali alla sinistra di governo, che anche i più paurosi e i più prudenti sembrano capire che è forse arrivato il momento di voltare pagina.

Cuperlo-Renzi