logo editorialeLe elezioni in Trentino, come ampiamente previsto alla vigilia, hanno visto il successo della coalizione di centro-sinistra, in continuità con l’esperienza di Lorenzo Dellai. E’ stato eletto presidente della provincia Ugo Rossi, del PATT (Partito Autonomista Trentino Tirolese), sostenuto anche dal Partito Democratico che con il 22% è risultato la prima forza politica.

Dietro di lui, molto staccato, è giunto Diego Mosna, sostenuto da alcune liste civiche ed autonomiste, oltre che dalla lista di Fare per Fermare il Declino. Molto ridimensionati, invece, rispetto alle politiche, sono stati sia il Movimento 5 Stelle che il PDL (nello specifico “Forza Trentino”), quest’ultimo finito addirittura sotto lo sbarramento.

Il successo del PD e la debolezza del PDL e della Lega rendono il Trentino un caso a parte rispetto alle regioni limitrofe. Ci si può ragionevolmente chiedere perché dalle parti di Trento non soffi lo stesso “vento del Nord” che troviamo in Lombardia ed in Veneto – e come mai l’autonomismo trentino trovi uno sbocco naturale nell’alveo un centro-sinistra pragmatico e moderato, piuttosto che verso opzioni politiche più sanguigne e rumorose.

Per rispondere a queste domande occorre innanzitutto prendere atto che il PD ha sulla questione dell’autonomia trentina una posizione ben diversa rispetto a quella che ha su richieste analoghe di devolution che  vengano da altre regioni: il PD accetta l’autonomia provinciale e gioca le elezioni regionali secondo le regole dell’autonomismo, sfruttando le possibilità di “buongoverno” che lo status di Trento garantisce. Al tempo stesso nessuno nel centro-sinistra italiano sembra disposto realmente a discutere forme di vero federalismo fiscale a beneficio delle attuali regioni a statuto ordinario. Il paradosso è che un partito come il PD, che in generale si dice anti-etnicista e che in molti casi invoca lo jus soli, pare disposto a riconoscere la devolution solo come “diritto di sangue”.

Trentini ed alto-atesini beneficiano di un “diritto etnico” a tenersi e gestirsi i propri soldi, perfettamente sancito e riconosciuto come politicamente corretto del PD. E’ un diritto etnico, esclusivo ed escludente eppure – da sinistra – non scatta nessuna accusa di egoismo o di razzismo nei confronti degli abitanti di Trento, di Bolzano (e similmente di Aosta). Il centro-sinistra, che spesso si mostra scandalizzato dalle rivendicazioni che vengono da altre regioni settentrionali, si guarda bene dall’addebitare ai trentini la colpa di sottrarsi ad obblighi morali di solidarietà nazionale. Piuttosto si fa garante del particolare status della provincia tridentina e ne riscuote ampiamente i frutti in termini elettorali.

Invece quell’accusa di egoismo o di razzismo colpisce i bresciani, i bergamaschi, i trevigiani, i padovani, i bellunesi, che pure altro non chiedono se non di poter godere degli stessi diritti di cui godono gli abitanti della Provincia Autonoma di Trento. Il PD dovrebbe spiegare, dal momento che riconosce l’autonomia trentina, come mai nega il diritto ad una vera devoluzione alle altre regioni del Nord.

E’ certo che le rivendicazioni venetiste e lombardiste assumono spesso, nelle forze che danno ad esse rappresentanza politica, un carattere scomposto ed inelegante. L’autonomismo trentino, invece, è l’autonomismo delle facce pulite, della gente “perbene” che vota per partiti “perbene”. Ma la ragione è che l’autonomismo trentino è l’autonomismo di chi ha già l’autonomia e con essa la pancia piena; di chi non ha particolari ragioni per alzare la voce.

L’autonomismo del Veneto e della Lombardia è invece quello di regioni che invece l’autonomia non ce l’hanno, e che si trovano continuamente espropriate di parte importante di quel che producono a beneficio dello Stato centrale, con conseguenze devastanti per la loro praticabilità economica. In Veneto si muore ogni giorno di centralismo e di statalismo, in una lunghissima scia di suicidi di imprenditori e di operai, e non può stupire se in questo contesto il voto della gente va a partiti che rappresentano pulsioni politiche più forti e “arrabbiate” di quelle che si riscontrano nel dibattito di Trento.

Eppure la sinistra continua a non comprendere la questione del “sacco del Nord” e sul tema dell’autonomismo il PD sembra confermare la vocazione che esprime su molti fronti – quella di essere in buona sostanza un partito socialmente conservatore che si limita a difendere i diritti di chi li ha già. Anche in questo caso, il PD resta il partito degli “insider”, quello che protegge chi già ha un lavoro prima di chi ancora non ce l’ha, chi ha lo stipendio fisso prima di chi se lo deve costruire ogni giorno, chi è ad un passo dalla pensione facile prima di chi gliela dovrà pagare.

Nella visione pragmatica del PD non stona che vi siano dei gruppi che si trovano in situazione di particolare privilegio – persino laddove questo va a cozzare con i princìpi teorici della sinistra, innescando in certi casi trasferimenti di ricchezza dal più debole al più forte. Ciò che sembra contare è che non sia messo in discussione il tradizionale circuito di “relazioni” politiche e che non saltino gli equilibri che per ora fanno tenere i conti complessivi su cui si regge il sistema.

E’ una strategia che punta tutto sulla difesa dello status quo e che quindi può ammettere la conservazione di tante eccezioni alla regola; tali eccezioni non compromettono il sistema, ma al contrario garantiscono constituencies di consenso. L’essenziale perché tutto regga è che chi ha pagato finora, continui a pagare come sempre. Per questo per il partito di Epifani è molto più utile “squalificare” la legittimità delle rivendicazioni venete e lombarde che mettere in discussione i “diritti acquisiti” trentini.