Di riscatti e liberazioni di ostaggi è, per molte ragioni, difficile parlare, dato che le opzioni di fondo, in situazioni come queste, sono la vita e la morte. Non la vita e la morte come concetti astratti. No. La vita e la morte (anzi, la vita o la morte) di persone in carne e ossa, delle quali conosciamo nome e cognome e lineamenti.

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Una scelta o l'altra (pagare, non pagare) spesso equivale, per chi ha la responsabilità di decidere, a premere un grilletto. Al netto delle differenze tra ogni singolo caso, le immagini degli ostaggi in tuta arancione decapitati da un miliziano dell'Isis sono la conseguenza di una decisione di questo genere: i sequestratori danno ai governi il potere di vita o di morte sugli ostaggi nelle loro mani, e i governi usano questo potere in maniera differente l'uno dall'altro. C'è chi paga, salvando la vita dell'ostaggio, chi non paga, consegnandolo alle mani del boia. L'Italia, dicono, paga. Come la Germania. Gli Stati Uniti, la Francia e Il Regno Unito no.

Ogni epoca storica ha i suoi governi e ogni stagione politica le sue priorità, quindi può sembrare sterile fare confronti con gli anni del terrorismo politico e dei sequestri a fini di estorsione. La decisione di non trattare, di non riconoscere i brigatisti come interlocutori politici, di non pagare riscatti al punto di imporre il blocco dei beni delle famiglie dei sequestrati ha oggettivamente aiutato a sconfiggere tanto il terrorismo che le anonime sarde e calabresi, anche se al prezzo di vite umane consegnate al boia, a cominciare da quella di Aldo Moro.

Ma se è un fatto che allora si è deciso di andare in quella direzione, a seguito di un dibattito politico doloroso e lacerante, è legittimo chiedersi quali siano le considerazioni che spingono oggi, in un contesto differente, ad agire in maniera tanto differente. Al punto che il non si tratta, non si paga, che più di trent'anni fa rappresentava la scelta convinta (a parte qualche deroga) dei più grandi partiti popolari, il PCI e la DC, e che oggi costituisce comunque un impegno sottoscritto ufficialmente dall'Italia in linea con la risoluzione 1904/09 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non sembra figurare, all'atto pratico e al di là delle dichiarazioni pro-forma, nemmeno tra le opzioni possibili.

Ed è proprio l'assenza stessa di una discussione vera, di un dibattito responsabile, a lasciare campo libero ai beceri sproloqui da bar (o da social network) sui quali oggi anche media e politici sembrano focalizzare la loro attenzione, declinando (sembrano farlo assai volentieri) la responsabilità di guardare un orizzonte più vasto della propria timeline. Ma quelli per cui chissenefrega, lasciamole crepare e quelli per cui chissenefrega, l'importante è riportarle a casa sembrano in fondo tutti far finta che non esista un contesto internazionale di guerra all'interno del quale l'Italia è coinvolta, volente o nolente, e nel quale le decisioni dell'Italia, anche quelle sulla vita degli ostaggi, hanno conseguenze di breve e di lungo periodo sulla durata del conflitto e sulle vite umane che in questo conflitto vengono sacrificate.

Uno dei tanti processi di rimozione collettiva nei quali l'opinione pubblica e la classe politica sembrano rispecchiarsi intimamente l'una nell'altra, lasciando che le cose, in questo caso la politica estera e la collocazione internazionale del nostro paese, continuino ad andare secondo lo stesso andazzo – non troppo dignitoso benché plurisecolare: quello per cui spasimiamo per far sapere ai nostri alleati che ci siamo anche noi, mentre cerchiamo in ogni modo di far credere ai nostri nemici che non ci siamo.

@LaValleDelSiele