Quasi più eclatante del tragico attacco alla redazione di Charlie Hebdo è stata la tragica reazione del senso comune: nel giro di poco c'è stata una polarizzazione delle posizioni, espresse principalmente on-line, in quelli che dicono "Io sono Charlie" e quelli che invece "Io no".

jesuischarlie

Cosa significa essere o non essere Charlie? Indipendentemente dal fatto che probabilmente significa soltanto che un mondo sempre più interconnesso permette al singolo di esprimere la propria ignoranza travestendola da impegno sociale, ragioniamo su che cosa dovrebbe significare essere o non essere Charlie. Uso il condizionale dato che Charlie Hebdo è un settimanale che fino a ieri tirava sotto le 100.000 copie, se aggiungiamo che circa 100 milioni di persone in tutto il mondo si siano pronunciate in merito, una stima più che generosa ci dice che 1 sola persona su 1000 parla di ciò che conosce. La stima appare più che generosa se si considera che 100 milioni sono circa il 7% dei soli utenti Facebook. Quindi uso il condizionale per dire che cosa a mio avviso intende chi usa il caso di qualcosa che conosce per nulla o marginalmente per affermare in maniera vaga una posizione apparentemente netta.

 

Essere Charlie dovrebbe voler dire che si considera la libertà una proprietà discreta "tutto o nulla": o c'è, o non c'è. Non si può essere "un po' liberi", o liberi di dire/fare questo, ma non quello. Chi replica di non essere Charlie dovrebbe sottointendere che la libertà è una proprietà continua cui ognuno può godere in diverse quantità: in altri termini, non costituirebbe un pericolo sostanziale l'idea di limitare la libertà.

Chi ha ragione? La questione è spinosa perché se in termini teorici e assoluti hanno probabilmente ragione i primi, nella contingenza pratica e imperfetta del mondo in cui viviamo, la concezione dei secondi si presta meglio a far fronte a tutte le imperfezioni mondane. In termini meno universali, se la libertà dovrebbe essere assoluta, si possono portare argomenti ragionevoli perché sia invece normata.

E qui nascono i problemi in misura di chi fa le norme e di come le fa. Più una norma è "debole" e più sarà garantita la libertà, in tutte le sue espressioni, quindi anche la libertà di sbagliare e la libertà di fare del male. Ad esempio: è giusto normare la libertà di satira escludendo tutte le manifestazioni che possono offendere i credi religiosi? Più in generale: il rischio di soffocare la libertà nel tentativo di normarla non è forse maggiore del rischio che una libertà non normata venga usata male? Questa ultima è forse la posizione di chi dice di essere Charlie.

Così emerge che chi è Charlie è in fondo ottimista e kantiano: ritiene l'uomo fondamentalmente libero e in grado di darsi da sè la propria legge morale; mentre chi non è Charlie è in fondo pessimista (lui direbbe "realista") in quanto ritiene che la libertà vada normata perché il singolo non è in grado di darsì una legge morale, né di sapere ciò che vuole. Quindi la satira va normata fino alla censura, così come la libertà di espressione.

Osservare i casi estremi aiuta spesso a definire i contorni degli eventi: è giusto essere liberi di esprimere idee violente o di odio?

Per l'ottimista-kantiano-charlie sì, perché così si garantisce davvero la libertà di espressione e la fiducia nella libertà di interpretazione: nessuna vignetta o pensiero deve essere soggetto a censura altrimenti si apre alla possibilità di limitare arbitrariamente la libertà e si spoglia al contempo chi legge la vignetta o ascolta il pensiero della libertà e della responsabilità di interpretarli con la propria testa. Insomma: non è vero che una vignetta o un pensiero generano odio perché l'odio è sempre nell'occhio e nella testa di chi guarda. Il pessimista-non charlie, invece, è anche "determinista", nel senso che pensa che la vignetta o il pensiero abbiano una forza determinante pari a quella di una azione fisica: hanno in se stessi il loro significato, che si trasferisce passivamente alle menti dei fruitori, quindi possono limitare la libertà altrui come se fisicamente gli imponessero di pensare o fare qualcosa.

Pur essendo la satira un sottoinsieme particolare del pensiero, in essa tutto ciò è più intuitivo, anche se raramente compreso razionalmente, perché l'ironia è una espressione di libertà che si palesa fisicamente attraverso il riso: una battuta spiegata non solo non fa ridere, ma fa pena perché toglie all'ascoltatore la libertà di arrivarci da solo. Una battuta di successo, invece, è la massima espressione di libertà perché pur sostenendo apparentemente qualcosa, lascia libero il fruitore di intendere quel qualcos'altro implicito la cui contrapposizione con l'esplicito non solo fa ridere, ma fa star bene perché ci rende orgogliosi della nostra capacità di interpretare oltre il rapporto deterministico segno-significato. La satira è la libertà di attribuire un senso al di là del significato, ovvero quel discrimine che per molti pensatori distingue gli uomini dalle macchine.

Per i Charlie è più importante il senso, l'interpretazione, la libertà, e non sono disposti a rinunciare nemmeno ad un pezzetto di quel potere sublime e divino che permette loro di ridere di tutto. Per i non-Charlie, invece, il mondo funziona meglio con la corrispondenza strettamente regolata di segno e significato, con il determinismo, e sono felici di rinunciare al compiacimento derivato dall'intesa di un'ironia capita pur di evitare un possibile fraintendimento.

E' per questo gioco sul campo della libertà che il tragico e il comico si trovano spesso a fronteggiarsi: il tragico è vissuto come una negazione della libertà, mentre il comico è la sua più estrema affermazione. In questa prospettiva, prende fischi per fiaschi chi, come Luca Sofri, cade nel sofismo del anche la satira è un fanatismo: rieccheggia ragionamenti barocchi come anche la scienza è una fede senza rendersi conto che, invece, la negazione di una negazione non è una negazione, ma è una affermazione. Così come la scienza è affermazione di libertà di pensiero in quanto negazione di ogni fede (cioè negazione di chi nega la possibilità di principi relativi), analogamente la satira è affermazione della libertà di critica (cioè negazione di chi nega la possibilità di critica).

"Vietato vietare", a dispetto del gioco di parole, non non è un paradosso, nè una negazione, ma semplicemente una affermazione che dovrebbe coincidere con la definizione stessa di libertà. Una libertà assoluta che richiede una sola (e non più di una) regola: quella di non calpestare l'altrui libertà. Il dibattito coinvolge quindi le fondamenta filosofiche dell'approccio alla vita di ciascuno, forse per questo ha tanto successo.

Indipendentemente dal fatto che vi sentiate Charlie o meno, credo che l'unico modo per uscire da questa dicotomia sia il dialogo onesto intellettualmente, quindi, proprio quel concetto di libertà assoluta di dire/fare/pensare tutto con l'unico limite di non impedire agli altri di dire/fare/pensare tutto. Una libertà che si auto-limita, come forse avrebbe voluto il buon vecchio Kant.