L'articolo 68 della Costituzione non chiede al Parlamento di "sovra-giudicare" l'applicazione di misure cautelari disposte dai giudici nei confronti di deputati o senatori, ma di decidere se autorizzarne o meno l'esecuzione, senza nulla specificare in merito ai criteri della decisione. E se il criterio non c'è, occorrerà assumere - piaccia o meno - che i costituenti della Costituzione più bella del mondo affidarono alle camere un potere sovrano, analogo al potere di grazia del Capo dello Stato, non una giurisdizione da esercitare in nome della legge.

Comunque, anche prima del 1993, quando sull'onda di Tangentopoli venne circoscritta una prerogativa che i costituenti vollero ben più ampia, subordinando all'autorizzazione delle camere anche l'esercizio delle azione penale nei confronti dei rispettivi membri, la giurisprudenza parlamentare tentò di rivestire di panni giuridici decisioni sostanzialmente politiche, in larghissima misura (e con pochissime eccezioni) orientate a salvaguardare la sostanziale immunità penale di deputati e senatori. Successivamente, dopo che, con una riforma approvata a furor di popolo dal "Parlamento degli inquisiti", venne limitata  la tutela alle sole misure cautelari, le camere iniziarono a limitare anche le ragioni del possibile diniego alle richieste dai giudici.

Anche in questo caso, il cambiamento della dottrina servì a giustificare una diversa giurisprudenza, più incline a accondiscendere alle richieste dei giudici a sinistra, e a giustificare dinieghi di natura "garantistica" nello schieramento berlusconiano, che nei confronti dei parlamentari ha sempre preteso di escludere, in via di principio, il ricorso alla custodia cautelare, mentre in via di fatto - va ricordato sempre e soprattutto in queste occasioni - ne giustificava o addirittura estendeva l'applicazione per la generalità dei cittadini.

I mutamenti della giurisprudenza e conseguentemente della dottrina hanno in questi anni perfettamente fotografato la natura delle relazioni e il mutamento dei rapporti di forza tra politica e giustizia. In questa legislatura, poi, a condannare preventivamente qualunque parlamentare su cui penda una richiesta d'arresto è l'affermazione, ben oltre i confini del voto per il M5S, di un sentimento trasversalmente antipolitico, coltivato per anni nelle serre dell'intransigentismo moralistico, concimato dal letame di una politica grottescamente arraffona e infine dilagato, come una pianta infestante, in tutto il sistema dei partiti, arreso alla paradossale necessità di auto-sputtanarsi per auto-legittimarsi. Non è un caso che la questione dell'immunità dei nuovi senatori sia uno dei nodi della discussione sul nuovo Senato e non poteva essere diversamente.

Ieri dunque la Camera ha spedito in galera Galan, come aveva fatto due mesi prima per Genovese, in base a una decisione politica quanto quella che, in altri tempi, avrebbe portato il Parlamento ad opporsi alla richiesta dei giudici e a rivendicare sfrontatamente l'intoccabilità di un rappresentante del popolo.
In linea di principio sarebbe bene che all'interno delle camere, nell'impossibilità materiale di adottare criteri non politici per le proprie decisioni, i diversi parlamentari e le relative forze politiche scegliessero, in questi casi, un criterio politico coerente con l'idea della giustizia e della pena concretamente perseguita de iure condendo. Non sempre avviene e non rende comunque meno discutibile e "arbitraria" l'autorizzazione o il diniego delle camere sulla richiesta di un giudice.

È comunque surreale discutere dei limiti della custodia cautelare per un parlamentare in un Paese in cui quattro detenuti su dieci sono in attesa di giudizio e due alla fine usciranno puliti, con tante scuse e miserevoli risarcimenti, dalla galera. Per quanto suoni odioso ripeterlo, è la "prigione degli altri" il terreno su cui saggiare il senso della giustizia dei parlamentari e del Parlamento.

@carmelopalma