Zotti Vendetta

Il primo ottobre scorso è entrata in vigore in Germania la Netzwerkdurchsetzungsgesetz, legge che punisce il linguaggio d’odio e i post offensivi sui social network; il testo si applica ai social che raggiungono la soglia di almeno due milioni di utenti registrati in Germania, ed esclude dal proprio ambito le piattaforme che offrono contenuti giornalistici o editoriali, per i quali permane l’ordinaria responsabilità in capo al fornitore dei servizi.

Si introduce un obbligo, al ricevimento di almeno 100 reclami in un anno concernenti contenuti illegali, di predisporre una relazione che illustri la gestione, da parte del provider, delle segnalazioni, la modalità di decisione, il tempo tra la ricezione e la cancellazione del post. I social, inoltre, devono predisporre un apposito modulo per i reclami, facilmente accessibile agli utenti, in modo che entro 24 ore dalle denunce, all’esito della verifica del contenuto, i contenuti manifestamente illegali possano essere rimossi o bloccati (il termine è di 7 giorni invece per i contenuti di più complessa valutazione). In caso di mancato blocco, le sanzioni vanno da 500.000 a 50 milioni di Euro: l’importo è cospicuo e ha la finalità di costituire un deterrente al mancato rispetto della legge. La legge tedesca ha fatto da apripista riguardo al tema, dato che le grandi sfide della tutela dell’individuo nella sua dimensione virtuale hanno attualmente ad oggetto il linguaggio d’odio, o hate speech, la discriminazione (di qualunque genere) e la violenza sul web.

Nel nostro Paese, la tutela della dignità contro gli abusi di questo tipo è data in modo programmatico dall’art. 13, comma 2 ultima parte della Carta dei diritti di Internet e in modo sostanziale dall’art. 595 del codice penale – reato di diffamazione, che, ove l’offesa sia arrecata mediante l’utilizzo di mezzi di diffusione, assume una forma aggravata.

Se però una forma di tutela individuale viene offerta dal diritto penale, il passo successivo è capire se e in che modo possa esistere una protezione contro la diffusione di notizie false, problema ancora maggiore rispetto agli altri, poiché apre scenari davvero complessi. Il problema delle fake news, da sempre presente, è esploso dopo le recenti inchieste sul villaggio di Veles, in Macedonia, dove si è scoperto che un gruppo di ragazzi, in un internet café, ha letteralmente fabbricato migliaia di notizie false durante la campagna elettorale per le elezioni americane.

Questi diciottenni dalla fantasia galoppante hanno creato siti fasulli dal grande appeal estetico, utilizzando una grafica elegante e nomi anglosassoni (ad esempio Huffingtonpolitics, versione tarocca dell’Huffington Post), dove pubblicavano ogni giorno scoop sempre più sensazionali. Talmente sensazionali da balzare immediatamente sui siti di informazione di tutto il pianeta. Peccato che tutte le notizie fossero assolutamente inventate. Grazie però alla condivisone su Facebook, queste sono diventate virali, rimbalzando sui siti web di tutto il pianeta in poche ore, e permettendo così agli autori di incassare cifre esorbitanti grazie alla pubblicità, tanto da consentire loro, per avere contezza della portata economica dell’impresa, di acquistare auto di lusso e beni immobili di pregio.

Con il falso si guadagna. Ma c’è di più: con il falso si influenza l’opinione pubblica, perché purtroppo ormai nel mondo 2.0 è pressoché impossibile riuscire a verificare la veridicità di ogni notizia, e internet, la prima fonte di fake news, è la prima fonte di approvvigionamento di informazione.

Il web offre l’anonimato, che spesso, in Paesi dove non c’è libertà di espressione, è l’unica opportunità per manifestare dissenso contro i regimi e permettere la diffusione di notizie (vere) sulle repressioni, la vita politica e le violazioni dei diritti umani. L’anonimato, tuttavia, è anche lo scudo perfetto per la creazione di notizie fasulle, ragion per cui sorge il problema della tutela dell’anonimato (art. 10 della Carta dei diritti di Internet) e di come si possa bilanciare con la libertà di espressione (art. 13, comma 2, della Carta dei diritti di Internet: “non sono ammesse limitazioni della libertà del pensiero”, art. 21 Cost.).

Il passo successivo è necessariamente allora il seguente: la notizia (vera), sebbene nasca generalmente da un fatto storico, diventa necessariamente esternazione, più o meno mediata, del pensiero di chi la divulga, dato che la realtà non esiste in senso assoluto, ma viene sempre filtrata attraverso chi la narra.

La notizia falsa nasce invece da un fatto storico inesistente, oppure è la distorsione di un avvenimento realmente accaduto, anche qui attraverso il filtro di chi la diffonde. Ancora, può essere punita la consapevolezza della diffusione di una notizia artefatta? La risposta è negativa, in quanto, mentre la libertà di espressione ha il rango di diritto costituzionalmente protetto, il nostro ordinamento non ha previsto nessun diritto alla verità dell’informazione che si riceve (infatti le bugie non sono punibili).

Per giungere al fulcro della questione proviamo a immaginare un ipotetico mondo in cui gli individui abbiano diritto ad avere accesso soltanto a notizie vere. Chi controlla le informazioni ma, soprattutto, in base a quale parametro? Verrebbe da rispondere che il paradigma debba sempre essere la verità. Conseguentemente, seguendo il filo logico, si deve anche immaginare chi decide cosa è vero e cosa non lo è. Il Grande Fratello, come in 1984? Com’è agevole constatare dall’esempio, il rischio è che si pervenga ad un controllo centrale delle informazioni, la cui divulgazione verrebbe stabilita in base a un concetto arbitrario e antidemocratico di verità.

Il nostro codice penale in realtà offre, seppur solo in parte, una tutela contro la diffusione di notizie false (art. 656 c.p.), a condizione però che siano tali da turbare l’ordine pubblico, mentre abbiamo visto che le notizie false che ledono un diritto della persona ricadono nell’ambito della diffamazione. La tutela penale, tuttavia, non si attaglia alle fake news fini a se stesse (invento e pubblico sul web una notizia falsa perché semplicemente oggi mi va di farlo) – che si potrebbero definire esercizi di fantasia – e fake news finalizzate a influenzare l’opinione pubblica, a meno di non creare un abnorme allargamento del concetto di ordine pubblico in totale spregio dei principî costituzionali. E non potrebbe essere altrimenti, dato che, diversamente opinando, si rientrerebbe nel pericoloso concetto di vero e falso in termini assoluti, con l’ulteriore – irrisolvibile – interrogativo di chi decide cosa è vero e cosa non lo è.

Il corollario è il grave rischio della fabbricazione e diffusione di notizie deliberatamente false durante le competizioni politiche, come è avvenuto negli Stati Uniti; nelle stagioni di campagna elettorale, effettivamente, l’opinione pubblica è affamata di notizie: v’è un flusso di informazioni enormemente più grande rispetto ad altri periodi ed è quindi notoriamente più difficile riscontrare la veridicità di ogni informazione.

La diffusione endemica di notizie false è tanto più grave sol che si consideri che queste sono spesso generate dai bot, finti profili creati artificialmente da applicazioni, dietro i quali non vi sono persone fisiche; il pericolo maggiore risiede nell’effetto gregge, il cosiddetto herd effect, ossia quel fenomeno per cui il singolo individuo tende ad uniformarsi alla massa, fisiologico finché la notizia diffusa dalla massa è vera, patologico quando è fake (per un’analisi approfondita sul tema, v. Andrea Mazziotti, Fake news, fake people e società della (dis)informazione: riflessioni su democrazia, informazione e libertà fondamentali al tempo dei social network, I diritti dell’uomo, I, 2017).

La propaganda, intesa nel senso moderno del termine, ha mostrato tutta la sua enorme potenza durante il Terzo Reich, quando l’utilizzo massiccio e costante di notizie artefatte ha finito per influenzare l’opinione pubblica di una nazione intera; Goebbels, nella sua lucida e geniale spietatezza, aveva immediatamente intuito l’infinito potenziale dei moderni (per l’epoca) mezzi di comunicazione per la diffusione delle idee naziste, mettendoli al completo servizio della propaganda di Stato; come sosteneva Hitler stesso,“la credibilità non importa. Al vincitore non sarà mai chiesto se ha detto la verità”. Con la propaganda si influenza e si piega l’opinione pubblica, e attraverso questa si arriva al controllo dell’individuo, dato che, per utilizzare le parole del grandissimo sociologo Max Nordau “l’opinione pubblica ha sull’individuo un tale potere che è impossibile sottrarsi ad essa”. Tutto ciò per riflettere su come l’addizione fra fake news e propaganda, o se si vuole dire in altri termini, la propaganda effettuata tramite la fabbricazione di notizie false, sia uno dei maggior problemi dell’informazione contemporanea.

Se infatti il falso è sempre stato utilizzato nella storia (la donazione di Costantino docet) come strumento di creazione e rafforzamento del potere, la difficoltà di oggi sta nel fatto che i social consentono una diffusione immediata e capillare delle notizie, di quelle vere come di quelle false, con enormi difficoltà di riscontro. E ogni forma di controllo alla fonte comporterebbe, come si è detto, una pericolosa compressione dei diritti e delle garanzie fondamentali del cittadino.

Tornando alla legge tedesca, seppure la risposta all’odio sul web possa apparire più incisiva rispetto a quella di altri Paesi dell’Unione, sarebbe auspicabile che a un problema globale venisse data quantomeno una risposta europea; sarebbe in effetti un interessante banco di prova per l’Europa, dato che in questo caso non si tratterebbe di armonizzare, come accade in molti altri settori di intervento, differenti legislazioni degli Stati membri, bensì di creare e offrire una soluzione comune e condivisa in chiave europeista.