abusoedilizio

La mediatizzazione di wicked questions come l'abusivismo edilizio, specialmente se propiziata da eventi drammatici e luttuosi come quelli di Ischia, non produce necessariamente buoni frutti. Si affastellano, infatti, numeri esposti ed esibiti con l’intento di colpire chi legge o chi ascolta, proposte di revisione del quadro legislativo vigente e accuse tra le diverse forze politiche di indulgenza nei confronti del fenomeno.

Prima di tutto è necessario comprendere e definire la consistenza del fenomeno o - laddove non esistano fonti statistiche ufficiali fondate su metodologie di rilevamento e restituzione delle informazioni chiare e definite - conoscere l’origine dei dati sui quali si fonda il dibattito pubblico. Una delle fonti che viene richiamata più spesso dai quotidiani per dimostrare la rilevanza e la "durevolezza" del fenomeno - che può essere utile prendere in considerazione più da vicino a titolo esemplificativo - è il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) prodotto annualmente dall’ISTAT e segnatamente il capitolo dedicato a “Paesaggio e patrimonio culturale”. All' interno del capitolo, così come in quelli inseriti nei rapporti pubblicati successivamente, sono stati forniti alcuni dati sull’abusivismo edilizio ed in particolare il numero delle costruzioni abusive ad uso residenziale ogni 100 legali nel decennio 2004-2014.

La prima osservazione da fare riguarda l’origine del dato. L’indice riportato nel rapporto dell’Istituto Nazionale di Statistica non è stato elaborato dallo stesso istituto sulla base di dati rilevati, ma è tratto da un lavoro del Centro Ricerche Economiche e Sociali del mercato dell’edilizia (Cresme) commissionato al medesimo centro studi da Legambiente. Sull’autorevolezza e la competenza del Cresme non ci possono essere dubbi, ma è doveroso, però, rilevare che il dato - che farebbe registrare una maggiore tenuta del mercato degli immobili illegali rispetto a quello degli immobili regolari nel decennio preso in considerazione - è stato messo a punto nell’ambito di una ricerca che è stata commissionata non da un soggetto istituzionale ma da quello che si può definire un’organizzazione di tendenza.

Un’organizzazione di tendenza, come può essere considerata Legambiente, opera per il perseguimento di scopi ideali e/o ideologici di varia ispirazione e natura, in ogni caso non di lucro. Ciò non significa che nella conduzione delle attività associative, e dunque anche nella produzione e divulgazione di informazioni, debba - al pari di un istituto di ricerca chiamato ad elaborare dati e statistiche per soggetti istituzionali - astenersi dal far pesare nella lettura e nella rappresentazione dei fenomeni l’orientamento culturale e le finalità per le quali opera. Appare lecito - direi doveroso in un ordinamento liberale - che un’organizzazione che si batte per la difesa dell’ambiente non sottovaluti, anzi al contrario tenda a tenere vivi l’allarme e la preoccupazione di fenomeni, come l’abusivismo edilizio, che compromettono l’integrità dell’ambiente pubblicando e diffondendo dati che documentano la tenacia e la persistenza di quel fenomeno. Allo stesso tempo è lecito - anzi doveroso - dare all’opinione pubblica informazioni circa la fonte e la natura del dato che viene proposto e la metodologia utilizzata per definire i numeri dei quali si parla.

Il dato delle costruzioni abusive ad uso residenziale – al quale si fa riferimento - deve essere, necessariamente, scomposto perché possa alimentare un dibattito orientato ad individuare soluzioni praticabili, e non semplicemente sensibilizzare (colpire) l’opinione pubblica. Quel dato, infatti, include gli immobili costruiti in assenza di titolo edilizio o in difformità da quest’ultimo? Quali sono le soglie stabilite per classificare come abusiva una costruzione realizzata in parziale difformità dal permesso eventualmente ottenuto? In quale misura sono nuove costruzioni ovvero interventi di ristrutturazione edilizia e/o di ampliamento di edifici esistenti? In presenza di quale provvedimento amministrativo e/o giudiziario le costruzioni sono state tracciate ed incluse tra i cosiddetti immobili illegali? Allo stesso tempo quando ed in corrispondenza di quale atto l'immobile viene tracciato come legale? All'ottenimento e/o al momento della richiesta di agibilità? Quando viene fatta la dichiarazione di fine lavori o quando viene messo sul mercato e/o venduto?

La disponibilità di queste informazioni - oltreché di quelle relative al diverso stato di avanzamento dei procedimenti amministrativi dei quali quegli stessi immobili sono oggetto ed alle relative condizioni di utilizzo - e la possibilità di leggere il dato relativo al cosiddetto “indice di abusivismo edilizio” anche alla luce delle suddette informazioni renderebbero quel numero utile a comprendere e, se possibile, aggredire più efficacemente quel fenomeno.

Da questo punto di vista quel che il dibattito pubblico sconta è anche una inadeguata conoscenza da parte di chi si misura con il tema - come dimostrano, per esempio, la famigerata dichiarazione di Luigi Di Maio secondo il quale “Se un giudice dice che un immobile va abbattuto, si fa” - delle diverse fasi del procedimento amministrativo che deve essere avviato al momento dell’accertamento di un abuso edilizio e delle possibili sovrapposizioni tra lo stesso procedimento amministrativo ed eventuali procedimenti giudiziari a seconda della natura penale dell’abuso contestato e/o in presenza di eventuali ricorsi innanzi ai giudici amministrativi.

Il Testo Unico dell'Edilizia prevede, infatti, che una volta accertata la realizzazione di un intervento edilizio senza la necessaria autorizzazione oppure in difformità dal titolo edilizio autorizzativo acquisito/rilasciato o con variazioni essenziali, l'amministrazione ingiunge, con un apposito provvedimento, la sospensione di ogni attività edilizia, la demolizione delle opere abusive ed il ripristino dello stato dei luoghi. Va tenuto conto che con questo provvedimento viene anche definita l'area che verrà acquisita, di diritto e gratuitamente, al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione.

Se, infatti, il responsabile non rimuove l'abuso entro il termine fissato l'ufficio comunale competente adotta un provvedimento con il quale si accerta l'inottemperanza all'ingiunzione disponendo la demolizione d'ufficio. Questo provvedimento costituisce l'atto con il quale l'area all'interno della quale si trova l'immobile e l'immobile stesso sono immessi nel possesso dell'amministrazione che, dunque, ne assume la piena disponibilità. A questo punto, si procede alla demolizione d'ufficio a spese del responsabile dell'abuso, salvo che con deliberazione del consiglio comunale non venga dichiarata la sussistenza di rilevanti interessi pubblici che giustifichino la conservazione e la rifunzionalizzazione dell'immobile.

Va anche tenuto conto che con l’approvazione di una proposta emendativa presentata dalla parlamentare del Movimento Cinque Stelle Claudia Mannino è stato previsto che l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione comporta l’irrogazione di una sanzione di importo compreso tra 2.000 e 20.000 euro da applicarsi nella misura massima in caso di abusi commessi su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica. Con la stessa proposta emendativa - tradottasi nell’inserimento all’interno dell’art. 31 del Testo Unico dell’Edilizia dei commi 4-bis, 4ter e 4-quater  - è stato previsto che per la mancata o tardiva del provvedimento sanzionatorio il dirigente ed il funzionario inadempienti possono incorrere in giudizio di responsabilità disciplinare ed amministrativo-contabile.

In parallelo al procedimento amministrativo può essere avviato e svilupparsi un procedimento giudiziario, ove per l'abuso contestato siano previste sanzioni penali. In base al Testo Unico dell’Edilizia, sono punite con le sanzioni penali fissate nell’art. 44 l'inosservanza delle norme e delle prescrizioni stabilite dai regolamenti edilizi dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire, l’esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso, la prosecuzione degli stessi lavori nonostante l'ordine di sospensione disposto dall’amministrazione, la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio e gli interventi edilizi in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso realizzati nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale.

L’azione giudiziaria - che come è noto è obbligatoria - è sospesa fintantoché non venga concluso il procedimento amministrativo attraverso il quale, in presenza dei requisiti previsti dall’art. 36 del Testo Unico e cioè dell’eventuale conformità dell’intervento alla normativa vigente, l’intervento può essere “regolarizzato” attraverso il cosiddetto accertamento di conformità. La natura sussidiaria dell’azione giudiziaria, per quel che concerne la rimozione degli interventi abusivi, è chiarita dall’art. 31 comma 9 in base al quale il giudice, con la sentenza di condanna, “ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”.

L’avvio dell’azione giudiziaria avviene in seguito alla trasmissione all'autorità giudiziaria del verbale con il quale è stato contestato il singolo abuso ovvero del documento - che il segretario comunale ha il compito di pubblicare mensilmente e/o con la cadenza stabilita dalla legislazione regionale - con l'indicazione degli immobili e delle opere realizzati abusivamente oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione.

L’innesco dell’azione giudiziaria ed il suo decorso, parallelo all’azione in capo all’amministrazione comunale sopra descritta, può portare - quando viene accertata la rilevanza penale delle attività edilizie abusive ed il responsabile viene rinviato a giudizio - a una sorta di sospensione/rallentamento dell’attività amministrativa finalizzata alla demolizione dell’abuso. Ciò può avvenire sia per la tendenza ad affidarsi all’esercizio dell’attività giurisdizionale che nel nostro paese è un atteggiamento culturale prevalente assunto non soltanto dai sindaci, sia per l’eventuale sopraggiungere di un provvedimento del giudice amministrativo. Da un lato può accadere che per effetto del sovrapporsi dei diversi livelli di regolazione previsti (legislazione statale, leggi e regolamenti regionali, le norme urbanistiche ed edilizie del comune oltreché i regimi di tutela che eventualmente trova applicazione) e delle modalità - non sempre impeccabili - di conduzione dei procedimenti autorizzativi, la natura abusiva dell’intervento non appaia così certa ed evidente da rendere l’accertamento e la contestazione da parte dell’amministrazione privi di qualsiasi ombra (di discrezionalità) e dunque agevolmente effettuabili.

Ciò fa sì che - per prudenza (eccessiva) e/o per la tendenza, diffusa a diversi livelli nelle amministrazioni, a fare quello che può essere definito “il minimo sindacale” tenuto anche conto dell’onerosità dei procedimenti amministrativi che danno luogo a contenziosi e della ridotta capacità operativa delle amministrazioni locali - l’amministrazione finisca per attendere l’esito del procedimento giudiziario, del quale sono ben noti i tempi lunghi, tanto più se le risorse per effettuare le demolizioni sono limitate e/o insufficienti e la disponibilità delle somme necessarie non si concilia con i tempi dei procedimenti autorizzativi preordinati all’effettivo utilizzo delle suddette somme. Dall’altro lato può accadere, anche, che il destinatario dei provvedimenti sanzionatori ricorra al giudice amministrativo e che quest’ultimo – sia per l’incertezza normativa sopra evocata sia in relazione all’andamento del procedimento giudiziario in seno al quale viene, di norma, disposto lo svolgimento di una verifica peritale con il coinvolgimento di un consulente tecnico d’ufficio (CTU) e di quello delle parti - accolga la richiesta di misure cautelari sospendendo l’efficacia del procedimento amministrativo, senza trascurare il fatto che sia per l’esame dell’istanza cautelare sia per il giudizio di merito sono ammessi due gradi di giudizio e dunque possono rendersi necessari tempi molto lunghi.

A questo riguardo è utile precisare non solo che con il famigerato ddl Falanga - stando al testo in discussione, ma un discorso analogo si poteva fare anche su quello originario - non si introduce alcuna forma di condono mascherato, ma che le disposizioni contenute nella norma non toccano in alcun modo il procedimento in capo alle amministrazioni comunali e non attribuiscono alle stesse amministrazioni la facoltà di procedere diversamente da quanto previsto dalle norme del testo unico sull'edilizia soprarichiamate, a seconda della natura (di necessità o speculativa) dell'abuso. I criteri individuati dal ddl Falanga - se il testo verrà approvato - potranno/dovranno essere applicati soltanto dalle Procure nel momento in cui e nei casi in cui - ad esito del procedimento penale - constateranno che l'immobile non è stato ancora demolito e non dai Comuni nell'esercizio degli ordinari compiti di vigilanza e contrasto dell'abusivismo loro attribuiti.

In merito a ciò merita, invece, di essere segnalata la disposizione contenuta nell'art. 2 del ddl Falanga che, ai fini dell’esecuzione degli interventi di demolizione degli immobili abusivi, introduce un intervento sussidiario delle Prefetture. Il testo dell’art. 2 del disegno di legge, così come approvato lo scorso 17 maggio dal Senato, stabilisce, infatti che le amministrazioni comunali trasmettano, entro il mese di dicembre di ogni anno, al prefetto ed alle altre amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli l’elenco delle opere non sanabili per le quali il responsabile non ha ottemperato all’ingiunzione di demolizione, e che le stesse amministrazioni statali e regionali preposte alla tutela, sempre entro il mese di dicembre, trasmettono l'elenco delle demolizioni da eseguire al Prefetto. La norma prevede che, entro 30 giorni dalla ricezione dei suddetti elenchi, il prefetto provveda agli adempimenti connessi alla conseguente acquisizione dei beni e delle aree interessate e disponga l'esecuzione della demolizione delle opere abusive ricorrendo, eventualmente, alla trattativa privata per l’affidamento dei lavori.

Per tornare alla questione posta inizialmente va tenuto anche conto che nella proposizione del tema e nel successivo dibattito pubblico bisognerebbe tenere presente anche la distinzione tra quelle che possono essere chiamate variabili di stock e quelle che sono variabili di flusso. La necessità di apprezzare distintamente i dati relativi allo stock di immobili abusivi rispetto a quelli relativi al flusso - ammesso che quelli circolanti siano appropriati a descrivere rilevanza e natura del fenomeno come precisato sopra - è particolarmente necessaria dal momento che nel cosiddetto stock è compresa ancora una grossa parte di quelli per i quali sono state presentate richieste di concessione in sanatoria sulla base delle norme statali in materia di condono edilizio che hanno fissato termini e condizioni (straordinari) per regolarizzare, da un punto di vista urbanistico-edilizio, gli immobili abusivi realizzati sino a delle date stabilite, e consentire l’estinzione del reato. Comprendere quale sia lo stock, tanto più in presenza di normative speciali che devono necessariamente trovare applicazione su una parte di quest’ultimo, e quale sia la tendenza in atto non è utile soltanto ai fini di una corretta rappresentazione del problema. E’ indispensabile - come lo è, o meglio sarebbe, rispetto alla famigerata questione del “consumo di suolo” - se non ci si vuole limitare a periodiche campagne di stampa alimentate da numeri ad effetto e proposte estemporanee, ma si intende definire credibili percorsi di gestione del problema o meglio dei problemi che il fenomeno dell’abusivismo presenta e pone.

Sullo stock, ed in particolare su quella parte dello stock rispetto al quale sono state presentate domande di sanatoria in base alle leggi varate nel 1985, nel 1994 e nel 2003 è indispensabile che le amministrazioni locali e gli enti preposti alla vigilanza dei vincoli e delle relative norme di gestione eventualmente coinvolti ai fini del rilascio del nulla osta necessario, definiscano una road map in base al quale concludere quei procedimenti facendo un uso oculato dei pronunciamenti giurisprudenziali intervenuti specialmente in merito alla sanabilità delle opere realizzate in aree soggette a forme di tutela e/o di vincolo (non necessariamente di inedificabilità) perché si possa disporre in un tempo ragionevole - giustizia amministrativa permettendo – di un dato credibile degli immobili abusivi non sanabili da aggiungere a quello degli immobili, parimenti abusivi, rispetto ai quali trovano (hanno trovato) applicazione le norme del testo unico dell’edilizia.

La rilevanza dei problemi, dei rischi e delle gravi incertezze che la presenza di immobili abusivi in permanente ed indefinita attesa di essere regolarizzati, ovvero di essere demoliti, dovrebbe indurre a ritenere che la mancata definizione di una road map (con tanto di indicazione del numero di procedimenti da chiudere entro scadenze temporali stabilite e di istruzioni operative per procedere in questa direzione) e/o l’eventuale mancata attuazione della medesima road map rischino di compromettere l'incolumità e la sicurezza pubblica e di mettere in discussione la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, garantite dall’art. 120 della nostra Costituzione e dalla relativa norma di attuazione. A questo riguardo può essere utile tenere in considerazione che l’art. 8 della legge n. 131 del 2003 prevede quanto segue: “Nei casi e per le finalità previsti dall’articolo 120, secondo comma, della Costituzione, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali, assegna all’ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario.”

Una credibile volontà di misurarsi con la questione dell’abusivismo edilizio - e non solo di fronteggiare le periodiche ondate di attenzione mediatica - non dovrebbe spingere l’esecutivo ad utilizzare l’art. 8 della legge 131/2003? Ricorrendo a questa disposizione il Governo potrebbe assegnare agli organi coinvolti un termine entro il quale definire un piano d’azione corredato da un serrato cronoprogramma per la conclusione dei procedimenti di condono edilizio pendenti procedendo - in caso di mancata definizione del piano d’azione ed ogni volta che una delle scadenze fissate nel cronoprogramma non verrà rispettata - all’adozione dei provvedimenti necessari oppure alla nomina di appositi commissari. Una procedura di questo tipo - da sperimentare inizialmente per la gestione della parte dello stock di immobili irregolari per i quali pende un’istanza di condono - potrà progressivamente essere implementata anche rispetto alla conduzione dei procedimenti amministrativi previsti dal Testo Unico dell’edilizia per gli altri immobili irregolari già realizzati e per quelli dei quali verrà accertata la natura abusiva agendo direttamente rispetto alle amministrazioni comunali o più propriamente nei confronti delle regioni che hanno un ordinario potere/dovere di sostituirsi ai comuni in caso di inerzia e/o inadempienze in materia di vigilanza urbanistico-edilizia.

L’attivazione di un processo di questo tipo, al fine di giungere alla chiusura dei procedimenti di condono edilizio avviati sulla base delle norme statali varate nel corso degli ultimi 40 anni - che richiederebbe, ovviamente, un’energica e duratura azione di governo - non comporta la risoluzione delle molteplici questioni che resterebbero comunque aperte. Andrebbe comunque definito sia se ed in che modo gli immobili abusivi non suscettibili di sanatoria in base alle leggi statali in materia di condono edilizio - dei quali si potrebbero conoscere finalmente la consistenza e la localizzazione al termine del processo sopra evocato - potranno essere demoliti, sia a quale regime giuridico e/o a quali condizioni e forme d’utilizzo specifiche (in aggiunta a quelle che già limitano/inibiscono la circolazione di immobili abusivi) debbano essere assoggettati in caso non sia possibile procedere alla demolizione, sia trovare le modalità appropriate a gestire i numerosissimi contenziosi che il rigetto di istanze di concessione in sanatoria presentate in alcuni casi più di 40 anni fa, in altri più di 20 ed in altri ancora più di 15 anni inevitabilmente sollevare.

Un’azione di questo tipo - particolarmente difficile, se non proprio impossibile, da implementare e da esercitare efficacemente dal centro attraverso un pervasivo esercizio dei poteri sostitutivi previsti dall’art. 8 della legge n. 131/2003 - potrebbe essere in qualche modo implementata ricorrendo all’attuazione di quanto previsto dal menzionato art. 2 del ddl Falanga. Il suddetto articolo, infatti, introduce una sorta di intervento sostitutivo da parte dei Prefetti affidando ad organi dell’amministrazione centrale che rappresentano l’Esecutivo sull’intero territorio nazionale, la disponibilità delle aree compromesse da interventi abusivi ed il compito di procedere alla demolizione di quest’ultimi.

La dipendenza gerarchica del Prefetto dal Ministro dell'Interno e la possibilità - per il Presidente del Consiglio dei ministri come per gli altri ministri - di esercitare poteri di indirizzo politico-amministrativo attraverso l’emanazione di apposite direttive, potrebbero rappresentare la cornice giuridica all’interno della quale definire ed attuare efficaci piani di azione finalizzati a demolire gli immobili abusivi ed a ripristinare lo stato dei luoghi. Per fare questo sarà necessario sia conferire ai prefetti - oltreché gli strumenti giuridici per procedere (la disponibilità delle aree e la possibilità di affidare i lavori anche a trattativa privata) - le risorse economiche necessarie, sia rendere possibile adeguate forme di raccordo con le amministrazioni locali e quelle preposte alla tutela e gestione delle aree e dei beni sottoposti a specifiche forme di tutela, sia trovare il modo di gestire i potenziali conflitti tra l’azione prefettizia e l’attività (e l’indipendenza) dei giudici perché si riduca la possibilità che si riproducano gli stessi cortocircuiti che si registrano tra l’azione amministrativa dei comuni e quella giurisdizionale.

A questo riguardo quel che deve essere contrastato – tanto attraverso una corretta informazione sulle norme contenute nel nostro ordinamento e su quelle in discussione quanto da una loro rigorosa e tempestiva applicazione – è l'idea secondo la quale la soluzione del problema non possa che essere affidata ai giudici alla quale sembrano rassegnati sia i promotori e ispiratori del ddl Falanga sia il Movimento Cinque Stelle guidato da Luigi Di Maio.