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In una recente intervista rilasciata al TG2000 – il telegiornale della TV della CEI - il Procuratore Capo di Reggio Calabria, dott. Federico Cafiero De Raho (per pochi voti, al Plenum del Csm di Luglio, mancato Procuratore Capo di Napoli) ha raccontato della propria esperienza a Reggio e del difficile rapporto tra il normale vivere sociale e la cautela per il ruolo svolto dovuto da chi opera, appunto, nella Capitale della 'Ndrangheta. Ecco una serie di virgolettati interessanti:

“Questo è un territorio nel quale non si possono avere rapporti con altre persone. Perché quello che caratterizza la ndrangheta è la sua capacità di confusione, d’infiltrazione e inquinamento in vari settori […] quindi bisogna vivere sempre da soli”.

“Non si ha mai la certezza di parlare con l’antimafia o con persone che hanno preso una posizione ferma contro la ndrangheta. La ndrangheta per essere battuta necessita di esponenti delle istituzioni che adottino anche un codice etico che riporti alla rinuncia a tutti i rapporti esterni che non siano quelli strettamente istituzionali”.

“Prima giocavo a tennis oggi non lo posso più fare perché anche quello determina entrare in un circolo, avere rapporti con persone. Cosa penserebbe il cittadino se mi vedesse insieme a persone che io reputo perbene ma che invece hanno rapporti che io ignoro. Penserebbero ad una Procura inaffidabile”.

Per tutelare l’istituzione alla quale appartiene e per non ledere la fiducia che i cittadini onesti hanno nei confronti della Procura, De Raho evita di frequentare luoghi e persone non istituzionali per non rischiare pericolose e sconosciute prossimità e questo stesso comportamento – simil monastico – consiglia, ovviamente, agli altri esponenti delle forze dell’ordine, delle istituzioni e della magistratura, tutti chiamati alla astensione dalle frequentazioni e ad opportune scremature purificanti nella cittadinanza; tutti invitati, quindi, isolandosi, ad isolare il male ed i suoi appestati untori reggini.

Ora, l’esternazione di De Raho non sorprende i più attenti osservatori delle dinamiche teologistiche che caratterizzano la Procura di Reggio Calabria e le Procure militanti del Sud in genere.

Attenzione, in tale contesto la critica che esprimo è essenzialmente ideologica, spirituale e politica; al di là, infatti, del prestigioso ruolo esercitato nella repressione degli orrendi crimini che caratterizzano l’associazione mafiosa e del plauso riconosciuto per il coraggio dimostrato da uomini davvero impegnati nel difficile lavoro di contrasto a questo cancro – non il solo, purtroppo – che attanaglia questi territori e ne impedisce il decollo sociale ed economico di cui sarebbero capaci, non si può non riconoscere – perché ogni positivo conosce il negativo - un certo atteggiamento elitario, da combattente solitario appunto, che caratterizza specificamente il modo d’essere proprio del magistrato d’assalto nel Sud.

Infatti, progressivamente, indagine dopo indagine, successo dopo successo, rischio dopo rischio, non ci si riconosce più semplicemente come funzionari dello Stato chiamati ad applicare la legge ma come soldati in prima linea; progressivamente, ancora, il compito da svolgere non è più quello di concretare il diritto penale nell’ambito di un contesto liberale caratterizzato da norme di garanzia che tutelano il singolo presunto innocente, ma è quello di combattere il fenomeno collettivo "'Ndrangheta", attraverso un impegno sempre più pedagogico, anche del tipo “Unum castigabis, centum emendabis”. Questo ovviamente, richiede operazioni mediaticamente efficaci, d’impatto e la rappresentazione divisiva tra una società civile pro procura – minoritaria ma “salva” – ed una maggioritaria ma “oscura” e “di mezzo”: il cui silenzio, la mancata partecipazione attiva all’ennesima manifestazione, il difetto d’esclamazione immediata ad ogni arresto, viene bollata come pavida rassegnazione se non, addirittura - e le ultime esternazioni vanno in tal senso - sospetto di prossimità e solidarietà.

Ora, occorre ribadirlo, qui non sono in discussione né le indagini della Procura, né la gravità del problema mafioso nel Sud ma un certo modo di interpretare il diritto nell’epoca della dichiarazione di guerra implicita ad interi pezzi di territorio e dello scadimento, quindi, del criminale a nemico assoluto che va, per questo, affrontato su un piano proprio dello stato di eccezione e non della norma/normalità; un piano magari “giusto” - ma ab-norme - che sostanzialisticamente guarda alle forme del diritto, alle garanzie – come quella, ad esempio, di presenziare al proprio processo e di conoscere il proprio giudice – come inutili orpelli che vanno deposti nel corso della battaglia.

E, purtroppo, in tal senso vanno alcune novità legislative da poco approvate – parlo della c.d. Riforma Orlando – per le quali, su chiaro impulso di un altro magistrato super impegnato come Nicola Gratteri (oggi procuratore a Catanzaro) - si è generalizzato il dibattimento processuale a distanza, con l’imputato in carcere, anche per risparmiare tempo e denari.

Nicola Gratteri, va ricordato, che fu l’artefice anche della ormai celebre rappresaglia di Platì del novembre 2003 – c.d. operazione “Marine” – nel corso della quale vennero arrestati circa 150 uomini in una notte compreso lo scemo del villaggio, operazione poi sconfessata dai processi e dalle sentenze (nei mandati di cattura si accusava il sindaco e gli amministratori comunali di aver prodotto una delibera finanziando la ristrutturazione di una zona indicata come “zona latitanti”. La notizia, però, era assolutamente falsa) e per la quale lo Stato italiano ha dovuto pagare risarcimenti per ingiusta detenzione.

La lotta politica, sociologica, mediatica e rivoluzionaria che il tipo del magistrato a deo excitatus realizza – spesso spregiudicatamente come Alessandro di fronte al nodo di Gordio - contro un fenomeno complesso ed un territorio paradossalmente vittima e complice, porta necessariamente – tra le persone “perbene” - a mitizzare il ruolo di chi assume sempre più spesso i modi, gli atteggiamenti, le pose di sacerdote del bene chiamato ad atti e provvedimenti straordinari, necessari per bonificare terre perdute allo Stato e popolate di eversivi cultori della connivenza, della complicità interessata, della critica antipatriottica e debosciata e che possono incarnarsi anche nelle forme dell’avversario occasionale di una partita di tennis.

È ovvio che, così procedendo, mortificando non solo i soliti politici “impresentabili” e la loro corte clientelare ma anche, ad esempio, il tessuto produttivo – imprenditoriale ed operaio - messo all’indice per le poche denunce di estorsione o per il posto di lavoro elemosinato (pena la fame, occorre dirlo) presso aziende borderline, si è arrivati oggi con scioltezza a consigliare il rifiuto di ogni contatto con utenti, clienti, colleghi, datori di lavoro e dipendenti non solo mafiosi – che, come tali, in vero, dovrebbero stare in carcere e non per la pubblica via – ma anche para mafiosi, cripto mafiosi, pseudo mafiosi, simil mafiosi, presunti mafiosi, fino, appunto, all’apogeo della finalmente ottenuta “solitudine dei giusti”.

Tutti a casa, quindi, tutti al chiuso dei privati e sacri monasteri, al riparo tra i pochi conoscenti dal pedigree certificato e “benedetto” dai non pochi sacerdoti della purezza ostentata e, per fortuna, utile a carriere veloci – salvo intoppi – alle quali l’aver tragicamente e solipsisticamente prestato opera in trincee del genere porta, prima o poi, l’uscita dall’inferno dei miserabili.

Chiudo: come credo risulti chiaro, sia l’intervista di De Raho che questa mia critica – pur avendo ad oggetto il diritto, le sue regole e forme, e la responsabilità penale personale e non collettiva – non utilizzano argomentazioni prettamente giuridiche e, genealogicamente, scantonano nel premoderno d’un approccio religioso al potere e al nemico. Ai tanti, troppi teologi delle verità di fede che sconoscono dubbio e garanzie, mi auguro risuoni sempre nelle orecchie l’urlo del giurista Alberico Gentili, gridato all’alba della modernità liberale, nell’ambito delle dispute sulla c.d. guerra giusta, contro i teologi armati delle proprie clavi ideologiche: “Silete in munere alieno!