FIANOCORSARO

E se a proposito dei cosiddetti reati di opinione si provasse a spostare la discussione dal piano dei principi a quello delle conseguenze e da quello della santità dei fini a quello dell'adeguatezza dei mezzi? Visto che il bene giuridico che la legge penale deve tutelare non è la "verità storica" del fascismo o del comunismo, ma la libertà politica e civile potenzialmente minacciata dai fanatici nostalgici delle macellerie passate o dai volenterosi ideologi delle macellerie future, è preferibile porre la questione in termini di efficienza, oltre che di giustizia, anche per fare in modo che la discussione esca da una sterile e circolare strumentalità politica: "Perché il fascismo sì e il comunismo no? Perché l'antisemitismo sì e l'antislamismo no?".

A proposito di reati di opinione e della loro drammatica inefficienza a contrastare la diffusione dell'odio e del pregiudizio è stata proprio l'ingiuria di Massimo Corsaro a Emanuele Fiano a fornire un esempio dei possibili paradossi di una legislazione generosamente repressiva. Se un'offesa, come quella di Corsaro, che pesca nella volgarità da trivio del fascismo più manesco e naturaliter antisemita diventasse, di per sé, reato, questo disgustoso parassita del malanimo e dello squadrismo parlamentare diventerebbe un martire della libertà di opinione e troverebbe di sicuro qualche collega, qualche giornalista, o qualche libertario a gettone o a geometria variabile, pronto a paragonarlo alla Fallaci e magari pure a Vaclav Havel o al Liu Xiaobo.

Come già è avvenuto in altri casi, le buone ragioni - che in termini liberali è sempre problematico fronteggiare e impossibile rimuovere - contro l'espansione della legge penale nel campo scivoloso del dibattito ideologico o del diritto di satira, offrono una patente di rispettabilità anche alle parole meno rispettabili e più deliberatamente offensive. È accaduto qualche settimana fa a proposito di un articolo di Filippo Facci, che non solo suonava, ma voleva essere una esplicita dichiarazione d'odio antislamico. Un ampio schieramento di colleghi (dal Fatto al Giornale, passando per il Corriere), con uno scandalizzato stracciamento di vesti, in nome del sacro diritto di parola, ha prontamente difeso l'autore non già da un'indagine penale, ma da una semplice sanzione disciplinare comminata dall'Ordine dei Giornalisti.

Presto diventerà un martire, proprio per il fatto di essere indagato, anche il gestore dello stabilimento balneare di Chioggia, che, per difendersi dalle accuse, ha già derubricato l'iconografia fascista a sceneggiata goliardica e - si accettano scommesse - troverà qualcuno pronto a difenderlo in nome del sangue versato dai vignettisti di Charlie Hebdo.

Alcuni dei più eminenti maestri del pensiero liberale, a partire da Popper, non hanno affatto escluso che l’intolleranza contro gli intolleranti possa spingersi anche all’uso della forza contro la mera espressione di un pensiero ideologicamente violento, ma che non comporti una minaccia diretta o una istigazione esplicita alla sopraffazione. Però anche Popper ne faceva una questione in larga misura “economica”. 

Se il pensiero intollerante può essere fronteggiato sul piano del dibattito razionale, è meglio non ricorrere alla forza. Se gli intolleranti rifiutano questo piano di confronto e tentano al contrario di condizionare e sabotare la libera competizione tra le idee - discutendo pacificamente, sì, ma con una esplicita e minacciosa riserva sui limiti della libertà altrui - allora è non solo giustificato, ma preferibile usare la forza e togliere ad alcuni il diritto di parola per ripristinare un sistema ecologicamente consono alla libertà di parola. Nondimeno anche questo tipo di argomento è comunque fondato su una valutazione del rapporto tra i costi e i benefici delle diverse scelte e non su di un ideale assoluto di giustizia.

Il peccato originale di queste discussioni "di principio" è proprio quello di cercare la formula in grado di assicurare un equilibrio perfetto, per così dire matematico, tra il diritto di parola e la repressione dell'odio. Mettiamoci il cuore in pace, questa formula non c'è, e va ogni volta inventata e adattata ai pericoli reali e alle contingenze storiche. È un fatto che oggi il diritto di parola di alcuni - pensiamo ai leader religiosi e politici delle comunità islamiche in Europa - sia sottoposto a una particolare vigilanza. È un fatto che nei confronti di alcuni di loro si adottano misure di prevenzione - prima tra tutte l'espulsione dal territorio nazionale - per la semplice espressione di vicinanza ideologica all'Isis o per l'esaltazione dell'esempio del martirio.

Nessun nostalgico del nazi-comunismo cambogiano verrebbe invece espulso dall'Italia per avere scritto su Facebook una apologia di Pol Pot e dei suoi massacri, né Razzi e Salvini finiranno mai sotto processo per avere esaltato l'ordine politico instaurato dello psicopatico despota nord-coreano. Il confine dell'intolleranza con gli intolleranti o con chi professa amore per regimi politici violenti e assassini è mobile e legato a circostanze di effettivo pericolo e soprattutto a un uso prudente dell'etica della responsabilità. E bisogna dire che in Italia, su questo piano, si sono dimostrati probabilmente più prudenti i giudici dei legislatori.

La deterrenza ideologica della legge penale è insieme molto relativa e molto tossica. Va usata con cautela, non con larghezza e nella consapevolezza che tutte le guerre culturali, anche quelle per la vita e per la morte, non si vincono nei tribunali. La società può resistere al contagio delle ideologie violente se ha gli anticorpi e la forza politica di resistervi. Ma una società debilitata e incapace di questa forza non potrebbe mai surrogarla grazie alla legge penale, che funzionerebbe come un'inutile toppa sui buchi, anzi sulle voragini, dell'opportunismo, della viltà intellettuale e della cattiva coscienza.

@carmelopalma