bambinosolo

Giosetta Fioroni, Bambino solo, 1968

 

Charlie Gard è nato il 4 agosto del 2016, e sulle prime sembrava essere un bimbo in salute. Solo dopo poco tempo ha cominciato a manifestare i primi sintomi della malattia della quale è affetto, la sindrome di deplezione del DNA mitocondriale, ed è stato ricoverato a ottobre al Great Ormond Street Hospital di Londra, dove si trova tuttora.

Le sindromi di deplezione del DNA mitocondriale (mitochondrial DNA depletion syndrome - MDDS) sono malattie molto rare che colpiscono il DNA dei mitocondri, gli organelli che consentono alle cellule di respirare e all’organismo di produrre l’energia necessaria alla sopravvivenza dei tessuti: le cellule smettono di funzionare correttamente e l’organismo comincia a deperire, a cominciare dai muscoli, dal fegato e dal cervello, gli organi che consumano più energia. La “versione” della malattia che affligge il piccolo Charlie Gard colpisce il gene RRM2B del DNA mitocondriale, e non lascia speranze di sopravvivenza.

Le condizioni di Charlie si sono progressivamente aggravate: ha perso la capacità di muoversi, è diventato presto dipendente dalle macchine per respirare, e soprattutto ha cominciato a manifestare una seria encefalopatia, smettendo di dare segnali di una normale attività cerebrale. E’ a questo punto che i suoi genitori hanno espresso l’intenzione di sottoporre il bimbo a un estremo tentativo, sperimentando nel suo caso una terapia (trattamento nucleosidico) utilizzata da una equipe medica statunitense per i pazienti affetti da una malattia simile ma meno grave (TK2 mutation, dal nome del differente gene del DNA mitocondriale colpito). L’introduzione alla decisione finale della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ricostruisce così i giorni successivi:

All'inizio di gennaio 2017, i medici che avevano in cura Charlie Gard hanno elaborato un piano per il trattamento nucleosidico da somministrare nel Regno Unito. Dal momento che si trattava di una terapia sperimentale, un protocollo per autorizzare il suo utilizzo è stato preparato dal Comitato Etico ed era prevista una sua riunione per il 13 gennaio. Tuttavia, prima che un piano per il trattamento potesse essere concordato, Charlie Gard ha subito una crisi epilettica, che è cominciata attorno al 9 o 10 di gennaio ed è continuata a intermittenza fino al 27 gennaio. Il 13 gennaio i medici di Charlie Gard hanno informato i genitori che il bimbo stava soffrendo di una grave encefalopatia epilettica. Hanno concluso che il trattamento nucleosidico sarebbe stato inutile e avrebbe solo prolungato la sofferenza di Charlie Gard. Il suo caso è stato esaminato anche da un team di esperti a Barcellona, che ha raggiunto la stessa conclusione.

E’ a questo punto che il caso clinico è diventato anche un caso giudiziario: i medici hanno proposto la sospensione della respirazione artificiale e l’applicazione delle terapie palliative, i genitori si sono opposti, nella speranza di poter trasportare Charlie negli Stati Uniti a loro spese per sottoporlo comunque al trattamento sperimentale. Sentito dalla corte inglese insieme a molti altri esperti, anche il professore di neurologia a capo dell’equipe che avrebbe dovuto trattare il bimbo negli Stati Uniti ha sostanzialmente escluso che la terapia avrebbe potuto salvare Charlie Gard, coerentemente con quanto affermato da tutti i medici consultati: nella pur improbabile ipotesi che il trattamento sortisse qualche effetto, non ci sarebbe alcuna possibilità di recupero per gli irreversibili danni cerebrali già procurati dalla malattia e dalle crisi epilettiche, che avrebbero condotto comunque il piccolo alla morte dopo mesi di agonia. Secondo i medici, infatti, è altamente probabile che Charlie Gard provi molto dolore e sofferenza, seppure non sia in grado di manifestarlo.

Le questioni su cui si sono incentrati i giudizi successivi dei tribunali inglesi interessati del caso, e infine la CEDU di Strasburgo, sono di varia natura: la definizione di “inutile” riferito a una cura, la definizione di “migliore interesse” (best interest) del bambino - al quale è stato assegnato un custode che ne rappresentasse appunto l’interesse nei procedimenti -, e in qualche misura anche la delimitazione del diritto di autodeterminazione del paziente. Se sul primo punto i tribunali non possono che prendere atto del parere dei medici del piccolo e degli altri esperti consultati, gli altri due aspetti sono comprensibilmente molto più delicati e controversi.

 

L’autodeterminazione del paziente

Ogni paziente ha diritto di non essere sottoposto a una terapia o a una profilassi contro la sua volontà. Questo diritto inalienabile - sia pure sia stato spesso, e per diverse ragioni, “alienato”: pensiamo ai trattamenti sanitari obbligatori, alla cura della malattia mentale, all’obbligo vaccinale, e sia pure si tratti di un diritto “problematico” nel caso in cui le cure mediche vengano rifiutate dai genitori per i loro figli minori - è un diritto, per così dire, “in negativo”: possiamo opporre un rifiuto a una terapia indesiderata, ma non possiamo pretendere il contrario, che ci venga somministrato qualsiasi tipo di trattamento medico, contro il parere di un medico. L’autodeterminazione del paziente non è un lasciapassare per qualsiasi cosa, e un medico non può essere obbligato a collaborare a una terapia che ritiene inutile, o dannosa, o eccessivamente afflittiva per il paziente.

La sentenza della CEDU riporta alcuni passaggi significativi delle motivazioni dei pronunciamenti del tribunale inglese:

15. Ogni giorno dall'11 aprile 2017 i ricorrenti hanno obbligato l'ospedale a seguire una procedura che, come è ormai chiaro senza dubbio, non è nel migliore interesse di Charlie. L'ospedale si trova in un dilemma etico estremamente difficile: anche se i ricorrenti hanno reso legittimo continuare a procurargli la ventilazione, l’idratazione e la nutrizione artificiale, l’ospitale considera professionalmente sbagliato avere continuato per oltre due mesi ad agire contro il suo interesse.

[...]

17. Noi tre membri di questa corte ci troviamo in una situazione che, per quanto possiamo ricordare, non abbiamo mai sperimentato in precedenza. Accogliendo il ricorso, anche se per breve durata, saremmo in qualche modo complici nell’orientare gli eventi in una direzione contraria all'interesse migliore di Charlie.

Quindi non è vero, come si è invece detto in molti commenti, che i giudici inglesi hanno obbligato qualcuno a fare qualcosa (i medici a praticare una sorta di eutanasia nei confronti del povero Charlie Gard, contro la volontà dei genitori). Il tribunale ha riconosciuto piuttosto il diritto di qualcuno a non fare qualcosa (i medici, a continuare a mantenere artificialmente in vita un paziente procurandogli inutili sofferenze, contro la loro volontà, anche se solo per il tempo necessario per organizzare il trasferimento negli Stati Uniti). Di più, lo stesso trasferimento è stato riconosciuto come estremamente afflittivo per il bimbo, e quindi da evitare.

 

Il "migliore interesse”

E’ chiaro che a questo punto la questione cruciale sia la definire quale sia il “migliore interesse” per il bambino. Quello che dicono i medici? Quello che dicono i genitori? Quello che dice un’autorità pubblica come un tribunale? Non esiste una risposta buona per tutte le occasioni. La legge riconosce la potestà dei genitori sui figli minori, ma questo non li rende una loro proprietà esclusiva. I minori restano dei soggetti titolari di diritti, e non è detto che i genitori siano sempre in grado di riconoscere il loro migliore interesse. Il tribunale in particolare, nominando un “custode”, ha ricordato come proprio il coinvolgimento emotivo estremo dei genitori in una simile situazione li rende suscettibili di scelte sbagliate per l’interesse del loro figlio.

In realtà ci sono molte situazioni in cui pacificamente non riconosciamo il diritto dei genitori a decidere per i loro figli: per esempio non riconosciamo loro il diritto di sottrarli a un percorso obbligatorio di studi, non riconosciamo loro il diritto di mandarli a lavorare al di sotto di una certa età, e non riconosciamo loro il diritto di usare la violenza e le percosse come metodo correzionale. In questi esempi è evidente come la sensibilità comune sia cambiata nel corso degli anni: in passato era ritenuto più che legittimo prendere i figli (o gli alunni) a bastonate, così come era ritenuto legittimo non mandare i bambini a scuola per mandarli a lavorare.

Anche il concetto di “accanimento terapeutico”, che ci induce consapevolmente a rifiutare la necessità di cure dolorose e inutili, è figlio dei tempi e spesso configge con le nostre istintive aspirazioni. In genere siamo tutti d’accordo a respingere l’accanimento terapeutico quando siamo in salute, o quando sono in salute i nostri cari. Invece di fronte alla malattia di una persona a cui vogliamo bene tendiamo ad aggrapparci a qualsiasi cosa possa confortarci nella speranza di allungarne la vita, e nella nostra bilancia ideale la sofferenza acquisisce un peso minore rispetto al sopravvivenza. Sopportiamo meglio l’idea che un nostro caro soffra in nome di un interesse superiore - la vita - perché non sopportiamo l’idea di sentirci responsabili o corresponsabili della sua morte. Questo è ancor più evidente quando si tratta di genitori nei confronti di un figlio, una situazione in cui la condivisione della responsabilità della morte è particolarmente intollerabile.

La giurisprudenza citata dalla corte (inglese) si riferisce proprio alla non esclusività della presunzione favorevole al prolungamento della vita, presunzione che resta comunque molto forte:

Il migliore interesse viene inteso nel senso più ampio e include ogni tipo di considerazione in grado di influenzare la decisione. Include, in maniera non esaustiva, considerazioni mediche, emotive, sensoriali (piacere, dolore e sofferenza) e istintive (l'istinto umano per la sopravvivenza).

[…]

Un peso considerevole (…) deve essere attribuito al prolungamento della vita perché l'istinto umano individuale e il desiderio di sopravvivere sono forti e devono essere presunti per essere forti nel paziente. Ma non è assoluto, né necessariamente decisivo; e può essere ribaltato se il benessere e la qualità della vita sono sufficientemente piccoli mentre il dolore e la sofferenza sono sufficientemente grandi.

 

La speranza, la pietà e l’assistenza

E’ chiaro che i genitori del piccolo Charlie non sopportino l’idea di lasciare andar via il loro bambino senza aver provato tutto ciò che è in loro potere per salvargli la vita, e dal momento che hanno riconosciuto - contro ogni logica ed evidenza, ma questo chiaramente non è rilevante nel loro stato d’animo - una sia pur flebile speranza nel trattamento sperimentale negli Stati Uniti, si oppongono disperatamente alla decisione dei medici che li renderebbe, in cuor loro, corresponsabili della sua morte. E’ la disperazione della speranza contrapposta all’atteggiamento dei medici che invece è più orientato alla pietà.

Un bell’articolo di Ken Murray di alcuni anni fa, che ha avuto un’ampia diffusione online, raccontava come siano proprio i medici a rifiutare spesso per sé stessi, quando si trovano a dover affrontare la loro malattia e la loro morte, gli stessi trattamenti, non necessariamente inutili ma senz’altro dolorosi, invasivi e lesivi della dignità personale, che hanno impartito ai loro pazienti durante la loro vita professionale, su esplicita richiesta dei loro cari.

Esiste senza dubbio una sensibilità differente tra i medici e i pazienti di fronte alla malattia e alla morte, frutto delle maggiori conoscenze scientifiche acquisite, come della lunga esperienza clinica maturata. Quella che in qualche caso ci può sembrare una sorta di sgradevole disincanto verso le nostre speranze - chi non ha provato questa impressione parlando con un medico di fronte a un proprio congiunto in stato terminale? - è per altri versi una forma estrema di pietà verso la condizione del paziente, quando la si riconosce come irreversibile. Di fronte all’ineluttabilità della morte, la speranza e la pietà sono due sentimenti che possono trovarsi in conflitto.

Un moderno sistema sanitario deve saper affrontare e prevenire il conflitto tra speranza e pietà con consapevolezza e sensibilità, e senza la presunzione di supporre che la semplice conoscenza della realtà porti a decisioni e a reazioni uguali per tutti: anche se la decisione dei medici e dei giudici su Charlie Gard è da ritenersi corretta, è necessario ridurre al minimo la possibilità che casi del genere si risolvano in maniera straziante davanti a un giudice, ed è responsabilità dello stesso ospedale assistere e accompagnare i parenti dei malati in un percorso di consapevolezza. Un percorso che nel caso di Charlie Gard, con ogni probabilità, non è stato curato in maniera adeguata, e non è la prima volta che questo accade nel Regno Unito.

Alcuni anni fa hanno fatto discutere - si potrebbe dire che sono state all’origine di un vero e proprio scandalo - le linee guida redatte dalla Royal Liverpool University e dal Marie Curie Hospital per garantire ai malati terminali degli ospedali lo stesso livello di qualità nei trattamenti di fine vita che viene abitualmente garantito negli hospices per malati di cancro. Sebbene in molti casi le linee guida siano risultate utili, ci sono stati episodi non occasionali in cui invece ne è stato travisato il senso, e addirittura i protocolli per interrompere la ventilazione artificiale e somministrare le terapie palliative sono stati applicati frettolosamente a pazienti - soprattutto anziani - che invece non erano da considerarsi terminali.

Recentemente sono state redatte delle nuove linee guida, proprio con l’intenzione di superare i problemi incorsi con le precedenti, ma anche queste sono state oggetto di critiche severe. In particolare il problema sembra essere la necessità di razionalizzare le risorse economiche, che conduce a linee guida discutibili dal punto di vista etico. Per capire le dimensioni del problema, si pensi che due anni fa il Nuffield Council of Bioethics ha dovuto produrre un documento proprio per guidare le decisioni etiche in una situazione di grave contrazione di fondi alle strutture ospedaliere.

Seppure non ci siano elementi per legare direttamente il caso del Great Ormond Street Hospital alle polemiche sulle linee guida - vecchie e nuove - è significativo il contesto in cui il caso è esploso. Quel che è certo è che qualcosa è andato storto, ed è auspicabile che almeno, nella tragedia, si faccia tesoro di quel che è successo per evitare il ripetersi di cortocircuiti strazianti tra medici e genitori (e giudici) come quello occorso nella vicenda del povero Charlie Gard e della sua sfortunata e disperata famiglia.

@giordanomasini