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Erano del tutto prevedibili le polemiche sulla decisione della Regione Lazio di bandire un concorso riservato a medici non obiettori destinati in via esclusiva al servizio di interruzione volontaria di gravidanza dell'ospedale San Camillo. Un concorso ad hoc, con una procedura ad hoc, che non impedisce ovviamente ai medici assunti, qualora cambiassero idea e si dichiarassero obiettori di coscienza, di astenersi dal praticare aborti (non si tratterebbe, cioè, di un illecito disciplinare), ma comporterebbe la loro messa in mobilità o in esubero.

Il Ministro Lorenzin sostiene che così viene violato il diritto all'obiezione di coscienza: cosa non vera, perché i medici assunti non saranno obbligati a interventi contrari alle proprie convinzioni morali. Rimane però il fatto che, dal punto di vista giuslavoristico, i medici assunti sembrano più equiparati ai cosiddetti "gettonisti" (medici a contratto esterni che operano a chiamata presso strutture in cui il personale interno non pratica aborti), che ai loro colleghi in servizio presso la stessa azienda sanitaria, per i quali l'esercizio del diritto all'obiezione di coscienza non comporta conseguenze né rischi dal punto di vista contrattuale.

La cosa che nessun osservatore mi pare abbia notato è che il caso laziale è la prevedibile conseguenza delle contraddizioni di una legge - la 194/78 - che da una parte riconosce il cosiddetto diritto all'aborto e dall'altra parte ne disciplina moralisticamente l'esercizio, trasformando l'accesso alla prestazione in un percorso a ostacoli di tempi e procedure dilatorie e riservando in via semi-esclusiva alle strutture pubbliche l'erogazione di tale prestazione, sulla base del fatto che solo esse - e le poche strutture private preventivamente autorizzate con molte restrizioni - siano in grado di adempiere allo spirito della legge e di impedirne l'abuso.

La legge 194 ha tra i propri obiettivi anche quello di prevenire gli aborti e quindi di persuadere le donne a non interrompere la gravidanza. E questo spiega perché anche l'aborto farmacologico, proprio perché troppo "facile", in Italia è stato a lungo e continua a essere osteggiato.

Si tratta di un'evidente ipocrisia, visto che la prevenzione degli aborti si fonda sulla prevenzione delle gravidanze indesiderate, sulla diffusione di una conoscenza e consapevolezza matura dei meccanismi sessuali e riproduttivi e sull'accesso a strumenti anticoncezionali efficaci, non sui burocratici fervorini impartiti, per conto dello Stato, dal personale sanitario e assistenziale che dovrebbe affiancare le donne che hanno deciso di abortire per far loro cambiare parere. Ma questa ipocrisia ha effetti a cascata anche dal punto di vista organizzativo, perché limita in maniera del tutto arbitraria il numero di centri che possono praticare aborti e dunque rende esplosive le conseguenze dell'esercizio - opportunistico o sincero poco importa - del diritto all'obiezione di coscienza.

In linea generale, il caso di questi giorni dimostra quanta ragione avessero i radicali nel 1981, quando sostenevano che l'unico modo per difendere la legge 194 era  migliorarla subito e proponevano il referendum per liberalizzare l'aborto, cioè anche per consentirne la pratica in qualunque struttura sanitaria. Se oggi l'aborto fosse liberalizzato, e qualunque ospedale o poliambulatorio attrezzato a questo tipo di intervento potesse offrirlo in regime di "convenzione automatica" con il SSN, vedendoselo remunerato con la stessa tariffa oggi corrisposta dalle regioni alle strutture pubbliche e a quelle private autorizzate, non servirebbero complicati e problematici concorsi ad hoc, ma basterebbe banalmente il mercato a garantire un'offerta adeguata alla domanda su tutto il territorio nazionale.

Il successo della legalizzazione dell'aborto - il tasso di abortività (numero di aborto per mille donne in età fertile) è stato nel 2015 del 6,6, un terzo di quello dei primi anni 80 - non dipende dalle "complicazioni" dell'aborto legale ma dalla riduzione delle gravidanze indesiderate, in cui incappano le donne meno informate e consapevoli. Non c'è un solo nato che sia stato "salvato" dal combinato disposto delle ipocrisie e delle restrizioni della legge 194.

Per tornare infine al tema più "sensibile", quello dell'obiezione di coscienza, anche in questo caso è la soluzione "di mercato", con un ampliamento massimo della facoltà di scelta, quella che garantisce meglio e di più i diritti di tutti, dei medici come dei pazienti. Non è credibile che sui temi caldi dell'aborto, della fecondazione assistita e in prospettiva - spero presto - del fine vita e dell'eutanasia si possa pensare di limitare il diritto individuale all'obiezione di coscienza per ragioni burocraticamente organizzative.

Il diritto all'aborto o all'eutanasia non istituisce un corrispondente dovere di qualunque medico a cooperare coattivamente a una scelta che moralmente non condivide. Per altro verso, l'indisponibilità del medico non può sequestrare, né conculcare il diritto di scelta di un paziente. Il compito dello Stato e del servizio sanitario nazionale è quello di migliorare il meccanismo di incontro tra domanda e offerta di prestazioni tra parti che condividono il presupposto morale della relazione terapeutica, non quella di "proibire" all'uno o all'altro l'esercizio della propria libertà

Quando - ripeto: spero presto - sarà legale l'eutanasia, non sarà "obbligatorio" praticarla anche negli ospedali o da parte di medici cattolici e ubbidienti alla dottrina ufficiale della Chiesa. Affermare anche solo teoricamente questo obbligo sarebbe, a mio avviso, una prova di ottusità laicistica che farebbe solo la fortuna dei clericalizzatori della boetica.

@carmelopalma