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Sulla questione dell'Islam e della guerra, che periodicamente ritorna a galla dopo ogni attentato che insanguina le città occidentali e monopolizza un dibattito pubblico perennemente in cerca di nemici interni da regalare al nemico piuttosto che di soluzioni da proporre: è proprio il fatto di essere in guerra a suggerire moderazione del linguaggio, e coscienza delle conseguenze delle cose che si dicono e che si scrivono.

È dalla consapevolezza di essere in guerra che deriva la necessità di non fare esplodere il fronte interno. Le espressioni "taci, il nemico ti ascolta" e "keep calm and carry on" erano slogan di guerra, non di pace. Non aver pubblicato sui giornali i comunicati delle BR è stato funzionale a vincere la guerra contro il terrorismo politico, non ad addormentare l'opinione pubblica. Oggi una guerra simile rischiamo di perderla non perché qualcuno - chi, esattamente? - neghi la matrice islamica del terrorismo, ma perché non abbiamo élite politiche e intellettuali sufficientemente mature da comprendere che la guerra è una cosa seria, che comporta consapevolezza e senso della misura, e non un gioco a chi fa la prima pagina di giornale più sconcertante.

Dal canto loro, l’alternativa che hanno di fronte le autorità pubbliche occidentali è tra la necessità (concreta) di dare risposte efficaci e la necessità (politica) di dare risposte rassicuranti. Dalla prima derivano i risultati, grandi o piccoli che siano, dalla seconda deriva il consenso. Cercare di tenere distinto l’Islam radicale dalla massa degli islamici, anche attraverso un uso strumentale e consapevolmente ipocrita delle categorie culturali, nel tentativo di non lasciar collassare l’intera comunità islamica occidentale verso il radicalismo fondamentalista, è funzionale alla prima esigenza. La generalizzazione serve alla seconda.