hebdo

Com’era prevedibile, la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto dello scorso 24 agosto ha riaperto la consueta polemica sui limiti della libertà d’espressione e sulla liceità di certe forme, più irriverenti e offensive, di satira. Non si dovrebbe forse sanzionare una così palese e gratuita mancanza di rispetto nei confronti delle 295 persone uccise nel sisma? Sono state molte, e lecite, le critiche nel merito. Alla satira di Charlie Hebdo – vera o presunta che sia – ha risposto con le medesime armi un apprezzabile Daniele Luttazzi. Molto meno apprezzabile “Libero”, che con altrettanta indelicatezza ha ben pensato di titolare “Viene voglia anche a noi di sparargli”.

Che quella del settimanale francese sia satira oppure no ha, d’altronde, ben poca importanza. Non soltanto perché sarebbe impossibile metterci d’accordo su cosa costituisca “vera” satira; ma anche perché in fondo, quand’anche stabilissimo con assoluta certezza che Charlie Hebdo è un giornale di cattivo gusto che non fa ridere neanche un po’ – opinione che molti di noi sottoscriverebbero – non per questo saremmo autorizzati a censurarne in alcun modo i contenuti.

Non tutti la vedono così, e tra questi due nostri acclamati filosofi. Secondo l’immancabile Diego Fusaro, la vignetta di Charlie Hebdo sarebbe espressione del “nichilismo mercatistico made in Usa” che ha affamato i popoli azzerando i diritti: “La chiamano libertà di pensiero: è stupidità organizzata, che può certo liberamente esprimersi, sempre comunque restando stupidità”. Su corde non lontane Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla “Sapienza” di Roma e firma pregevole del Corriere della Sera: “#CharlieHebdo FA SCHIFO! Perché è il precipitato dell'ultraliberalismo contemporaneo, la libertà per la libertà, vuota e insulsa, che non conosce né legame politico né senso etico”. Nessuno dei due parla apertamente di censura, ma entrambi mettono sul banco degli imputati la libertà d’espressione. E, coerentemente, il mercato che la rende possibile.

Eppure, per due filosofi non dovrebbe essere difficile comprendere che il concetto di libertà d’espressione – e, in effetti, il concetto stesso di libertà – è un concetto soltanto formale. Difendere la libertà significa difendere un insieme di regole che fissano i limiti dell’azione individuale senza prescrivere condotte specifiche. Stabilire a priori i contenuti delle azioni o delle forme d’espressione individuali, così come vietarli, vuol dire porsi al di fuori di un orizzonte che abbia a cuore la libertà. Che ci piaccia o no, nell’ammettere la libertà come valore non possiamo mai essere certi che essa sia messa al servizio della correttezza, del buon gusto o del rispetto. Ma se si lamenta una “libertà vuota”, se si auspica una libertà che esprima contenuti precisi e una sensibilità etica particolare, a quella libertà si sta già rinunciando.

Il punto di vista dei due filosofi è figlio di una visione del mondo incapace di comprendere il mercato quale insieme di decisioni decentrate, nella produzione come nel consumo. Se proprio volessimo trovare un meccanismo distorsivo della libertà individuale, dovremmo puntare il dito contro le sovvenzioni pubbliche all’editoria che impediscono di stabilire quali testate sopravvivono in virtù della preferenza del pubblico e quali no.

A tal proposito, verrebbe da chiedersi: a chi dovremmo affidare il compito di vagliare i contenuti dei cittadini, di distinguere il buon uso dal cattivo uso della libertà? Non sembra esserci altra risposta che lo Stato. Come sarebbe possibile porre un limite alla libertà, se non attraverso il monopolio della coercizione esercitato dai governi? Ne abbiamo già scritto su queste pagine a proposito del reato di negazionismo: i governi sono organizzazioni di individui che non incarnano alcuna speciale saggezza morale che li renda all’altezza di un simile compito.

A una soluzione del genere, all’idea di un élite culturale che discrimini tra i contenuti a beneficio della moltitudine incolta, occorrerà perciò opporre sempre un secco rifiuto. All’ipotesi coercitiva, all’idea di un ristretto gruppo di individui che stabilisce ciò che le persone possono leggere, quali opinioni possono professare e quali forme di intrattenimento debbono scegliere – a tutto questo, dovremo sempre preferire l’irriverenza e il cattivo gusto di Charlie Hebdo. Nei confronti del settimanale francese esprimeremo il nostro disappunto nel modo più semplice e più genuino possibile: astenendoci dal comprarlo.