schwazer

Il caso Schwazer dimostra probabilmente che la geopolitica dell'antidoping ha sostituito (o ricompreso) quella del doping, un po' come l'antimafia in Italia è stata per una parte lotta alla mafia dello Stato e per altri versi anche lotta della mafia allo Stato e spettacolare travestitismo legalitario dell'illegalità.

Tra la positività prima di Londra e quella prima di Rio, su un campione prelevato il 1 gennaio 2016, che aveva nel frattempo fatto il giro di Europa con appiccicata la targhetta con l'indirizzo di casa del titolare, non c'è nessuna somiglianza. Nel primo caso, è stata una sorta di resa o di autoconsegna di un atleta psicologicamente alla deriva, che da tempo peregrinava tra medici chiacchierati e pasticciava con un doping fai-da-te suicida, mentre il suo allenatore e la Fidal facevano finta di non sapere e non vedere nulla, neppure la stranezza della clausura preolimpica a casa della fidanzata in Germania.

Nel secondo caso, è stata una punizione, annunciata da una serie di avvertimenti espliciti e ampiamente documentati, e alla fine puntualmente eseguita, contro il reprobo Schwazer che pretendeva di tornare a essere un vincente pulito, dopo essere stato un perdente dopato. La casa di vetro in cui Donati aveva costretto Schwazer a vivere e ad allenarsi e a dar conto quotidianamente di tutto non è stata, evidentemente, una protezione sufficiente. Ha reso più trasparente quanto si muoveva al suo interno, ma ancora più torbido quanto ribolliva all'esterno contro questa intollerabile "rinascita".

Ovviamente quanti oggi difendono Schwazer sono accusati, come Donati, di essere collusi o, come milioni di tifosi, accecati dalla partigianeria sportiva. Ma il caso Schwazer non è affatto sportivo, bensì interamente politico. E' del tutto politico questo governo dell'antidoping, come lo era quello del doping. E' una questione di forza e di alleanze tra Paesi e federazioni, di equilibri negoziati e delicati che lasciano sul terreno anche vittime illustri - a Rio, innanzitutto i russi - ma che rispecchiano ragioni di tenuta e compatibilità generale, non di giustizia di un sistema, di cui Donati denuncia da decenni opacità incestuose e complicità tra controllori e controllati. Ne guadagnò, tra le altre cose, esattamente vent'anni fa l'azzoppamento di un'atleta che allenava e che risultò positiva alla caffeina, ma venne alla fine prosciolta per l'evidente e maccheronica manomissione delle provette.

Il problema dunque non è credere all'innocenza di Schwazer. Il problema è che un diritto antidoping sequestrato dalla ragion di stato sportiva non può dare esiti onestamente credibili. Può un atleta essere squalificato perché un suo campione risulta misteriosamente contaminato, sei mesi dopo il prelievo e pochi giorni dopo il ritorno alle gare e alla vittoria, da una sostanza che, per essere dopante, avrebbe dovuto essere regolarmente utilizzata e quindi agevolmente scoperta in tutti i numerosi controlli precedenti e successivi?

Ricapitolando: il caso Schwazer non è un caso di doping, se non nel senso che è un caso di doping dell'antidoping. Last but non least, il caso Schwazer è in realtà il caso Donati, cioè il caso di un assassinio reputazionale concepito per buona parte in Italia, da teste, se non mani, italiane. È, mutatis mutandis, il bonifico sporco sul conto di Falcone che i mafiosi hanno sperato per anni di potere accreditare, prima di rassegnarsi a usare il tritolo. Di fronte a tutto questo Coni e Fidal sembrano non vedere e non sentire nulla, come quattro anni fa, quando Schwazer si dopava nel cesso di casa Kostner e risultava ufficialmente "influenzato".

Ma è tutto comprensibile e forse pure inevitabile, perché la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 comporta un sovrappiù di prudenza, non l'improntitudine di correre appresso a un vecchio Don Chisciotte dell'atletica pulita e alla sua ultima sfida all'antidoping dopato.

@carmelopalma