Fabrizio Pellegrini

Nelle ultime settimane, la travagliata vicenda parlamentare della pdl di legalizzazione della cannabis si è intrecciata con quella, ancora più travagliata, di un uomo, Fabrizio Pellegrini, quarantasettenne musicista di Chieti, rimasto vittima dell'attuale legislazione proibizionista in materia di droghe.

Pellegrini, che soffre di fibromialgia ed è allergico alla maggior parte degli antidolorifici, qualche anno fa scopre di poter trarre giovamento, per i dolori dovuti alla sua malattia, da un farmaco a base di cannabis. Scopre anche che la sanità dell'Abruzzo, la regione in cui vive, è una delle più avanzate d'Italia in materia di cannabis terapeutica: il farmaco di cui ha bisogno dovrebbe essere liberamente disponibile e addirittura per lui gratuito, a carico del servizio sanitario regionale, che ha a disposizione un fondo per questo tipo di esigenze.

Tuttavia, come spesso accade in Italia, la legge è una cosa, la pratica un'altra: Pellegrini (il quale pure, come tutti noi, paga le tasse anche per poter usufruire di quella che ormai è "sanità gratuita" solo di nome) scopre di dover provvedere da solo alle spese per il medicinale, che sono nell'ordine di 500 euro al mese.

Per un po' lotta, si arrangia, spende i suoi risparmi, chiede prestiti agli amici, ma poi, non essendo ricco e nemmeno benestante, non ce la fa più a pagare quel "mutuo" mensile: comincia a coltivarsi in casa qualche pianta di marijuana, per poterne assumere il principio attivo che, anche se non è efficace quanto il farmaco, lo aiuta comunque ad alleviare il dolore.

Ma qui entra in gioco l'inesorabile giustizia italiana, che nell'essere debole coi forti e forte con i deboli non ha rivali: indagini, irruzioni di polizia, processi, cause, testimonianze, spese legali e infine il carcere, a condannare una condotta che non danneggia nessuno, e anzi è finalizzata a migliorare la salute di chi la applica. Pellegrini coltiva marijuana? Non importa che lo faccia per sopperire alle mancanze di un sistema sanitario che non dà quel che promette, non importa che sia l'unica cosa che può prendere per dare sollievo ai suoi dolori: per la legge italiana è un pericoloso criminale, e come tale deve andare in galera. Così, l'11 giugno di quest'anno, a coronamento di una vicenda drammatica durata otto anni, l'uomo viene per l'ennesima volta trasferito nel carcere di Chieti, dove la sua condizione, nell'impossibilità di usare qualunque farmaco a base di cannabinoidi, peggiora drammaticamente di giorno in giorno.

I Radicali (sì, i soliti Radicali), come spesso succede, sono i primi ad attivarsi sulla questione: lanciano un appello al ministro della Salute e a quello della Giustizia e iniziano uno sciopero della fame perché sia almeno riconosciuto il diritto di Pellegrini a una perizia medica, che non potrebbe che confermare l'incompatibilità delle sue condizioni di salute col carcere. Anche la senatrice Pezzopane (PD), abruzzese come Pellegrini, si attiva sul caso.

Infine, ieri 2 agosto, arriva la decisione del magistrato di sorveglianza, che decide di mandare Pellegrini ai domiciliari. Una vittoria che tuttavia, per quanto giunga, naturalmente, gradita al pianista chietino e a tutti quelli che hanno lottato per la sua causa, è soltanto parziale.

La legge italiana, infatti, ancorata a un proibizionismo ormai superato dalla storia, continua a presentare incoerenze macroscopiche non solo nell'impostazione generale, ma anche nei dettagli: più volte la Cassazione ha ribadito che, mentre il possesso di cannabis (la quale, stante l'attuale quadro legislativo italiano, non può che arrivare da un commercio illegale) non è punibile penalmente qualora venga stabilito che sia per uso personale, la coltivazione, anche modesta, è esclusa da questa logica e il malcapitato coltivatore deve affrontare un processo penale, anche qualora sia evidente che utilizzi la pianta e i suoi derivati esclusivamente per sé (per i motivi, vedi qui). Inoltre, c'è da rilevare che, anche in un quadro proibizionista come l'attuale, il "caso Pellegrini", se almeno le leggi sull'accesso alla cannabis terapeutica fossero state applicate nella loro interezza, non sarebbe dovuto esistere.

Oggi, con una proposta di legge in tema di legalizzazione in discussione alla Camera e un'altra di iniziativa popolare su cui si stanno raccogliendo le firme, il futuro sembra leggermente meno cupo rispetto a qualche anno fa, anche se non è affatto garantito che l'una o l'altra arrivi a buon fine, e forse occorrerà pagare pegno a elementi particolarmente retrivi della compagine di governo eliminando qualche disposizione essenziale, come peraltro è già accaduto con le unioni civili e la c.d. "stepchild adoption".

Possiamo solo sperare che, almeno questa volta, il buon senso di evitare casi come quello di Pellegrini e come le migliaia di altri che affollano i tribunali e le carceri italiane prevalga sul senso comune, che invece vorrebbe, in nome del principio astratto per cui "quello che fa male va vietato" (ma solo se non è monopolio di Stato, chioserebbero alcuni), continuare a trattare i cittadini come sudditi, incarcerati per un crimine senza nessuna vittima.