Leonardo Sciascia
Davvero può bastare la repressione giudiziaria a sconfiggere le mafie? Da più parti e da tempo ormai giunge una risposta univocamente negativa e si invoca una soluzione culturale e comunitaria, una sorta di rivoluzione dal basso che, travolgendo i retaggi del passato e la plumbea tradizione di omertà e paura, compia il miracolo della palingenesi.

Tutto giusto e auspicabile, ma anche troppo semplice. Da dove partire? Dalle scuole, si dice, dall'antimafia educativa e didascalica capace di incidere sulla formazione dei giovani e dunque anche di quei figli di 'ndrangheta o camorra che dovrebbero essere sottratti alla potestà genitoriale e riprogrammati alla vita civile. Ma la scuola antimafia, a partire dalle aule, non ha bisogno di buoni esempi extrascolastici? E questi, dove sono? Solo nel meritorio apostolato antimafioso di "operatori dedicati" e in una sorta di professionismo antimafia, non giudiziario ma culturale?

E su quale punto occorre spingere per suscitare la reazione antimafiosa? Si dovrebbero approfondire i paradossi di quelle tante coscienze scisse tra l'apparato valoriale ufficialmente antimafioso e quello familiare e "mafiogeno". Questa scissione va coltivata, questo paradosso approfondito, questa frattura estesa, ma anche in questo caso a partire da un esempio sociale, da una testimonianza che non sia solo una predicazione. Solo il segno di una diversità possibile, di una vita estranea alle dinamiche del sopruso e aperta a concetti quali sacrificio e merito può davvero influire sulle nuove generazioni, può portarle alla contraddizione culturale con i vecchi valori e riferimenti, può dare forza dirompente ad una ribellione interiore e liberante fatta di lacerazione, di dolore, ma anche di risultati.

Insomma, se nella storia meridionale la mafia ha surrogato la borghesia nel suo ruolo economico-politico, solo una borghesia meridionale può culturalmente soppiantare il potere mafioso, incarnando un'alternativa concreta sul piano dei valori e delle opere.

Se, come insegnava Sciascia, le mafie sono forme di "intermediazione parassitaria tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato", l'antimafia o è borghese o non è. Non è solo il successo della lotta alla mafia a consentire la nascita di più imprese al Sud. È l'esistenza di una vera imprenditoria meridionale - quella non finta, non assistita e non parassitariamente intermediaria, come la mafia, di diritti altrimenti negati - a costituire una condizione di successo della lotta alla mafia.

In realtà al Sud qualcosa di sostanziale è cambiato. Il flusso delle generazioni, il contagio virale di una onestà che non giudica ma propone, offre ed ascolta; la stessa possibilità di iniziativa, di movimento e crescita offerta dalla globalizzazione economica e tecnologica - magari subita, ma vissuta - hanno già prodotto frutti buoni, anche se non sufficienti. La gran parte dei meridionali non ne può più di vessazioni, di minacce, dell’ingiustizia atroce di una libertà - anche d'impresa – concussa fino all’inverosimile. Non ne può più della propria anomalia, della propria vergognosa diversità. Il coraggio borghese, bisogna ricordarlo, viene anche da qui, dall'esigenza di decoro civile e di autoriconoscimento. Un'esigenza sempre più dolorosamente avvertita.

Bisogna ammettere, infatti, che il feudalesimo premoderno imposto dall'ordine mafioso è ormai risibile – magari in privato, ma è a partire da questo che si arriva al politico, al pubblico – ed essenzialmente goffo e incomprensibile nelle diatribe capziose che i capi sono chiamati a dirimere, non senza difficoltà e compromessi, per gestire un territorio che, nonostante l’internazionalizzazione, la delocalizzazione e la dematerializzazione del profitto legato alle droghe ed all’assurdo proibizionismo che lo genera, non cessa di essere rappresentato come fonte di sovranità; un territorio vissuto come roba e latifondo, magari estraneo al vero business, ma ritenuto, da un punto di vista teologico-politico, originario, mitico, sorgente ctonia di potere.

Ed allora, proprio contro questa metafisica teologica, contro tale infuriare di poteri indiretti e guerre sacerdotali di matrice rurale, lo spirito borghese e laico non ha un effetto dirompente? Lo ha eccome!

E laddove non può aver successo pieno la repressione penale, né la "rivoluzione comunitaria" da tanto, troppo tempo idealizzata ed attesa, non potrà spuntarla un sano anarchismo individualista? Quell’istintivo antistatalismo caratteristico delle nuove generazioni refrattarie a subire dominii e ostacoli non si rivolge oggi - chissà in quali forme sotterranee e imprevedibili - anche contro lo Stato dell'antistato? Contro un potere ormai sempre più frammentato, disarticolato e anacronistico nelle sue forme pratiche e rituali?

Tutto è pronto forse perché dietro ai veri intraprenditori del Sud – e non solo del Sud – si strutturi una nuova coscienza borghese e un nuovo eroismo civile fatto di senso di autonomia, di orgoglio per il proprio lavoro e di giusta gelosia per il guadagno e successo ottenuto.

La borghesia (mi piace usare questo termine nel senso di Sergio Ricossa, ossia come vocazione dell'uomo a rapportarsi con l'altro, a crescere e a migliorare attraverso lo scambio) c’entra con l’intraprendenza dei singoli (soprattutto di chi non ha niente e ha fame di tutto), con la testarda opposizione al privilegio e al sopruso, con l’amore per le cose realizzate, con l’edificazione di iniziative libere di espandersi, capaci di successo, profitto e lavoro. Dopo i tanti eroi magistrati, poliziotti, preti e giornalisti, di questi eroi borghesi avremmo adesso davvero bisogno e, forse, di meno stigma sociale prodotto da una repressione statale - per carità: giusta ed indispensabile - ma che, a livello culturale e spirituale, è incapace di ricadere nel profondo di una società ferita non solo dal sopruso mafioso, ma dall'abitudine a esso.