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Il caso Guidi ha scoperchiato nuovamente il vaso di Pandora del lobbismo. Si è tornati a parlare, sotto la pressione mediatico-giudiziaria, di lobbying come pratica distorsiva e ai limiti della legalità per i presunti scambi di favore tra governo e responsabili dei rapporti con le istituzioni di grandi gruppi multinazionali.

Al centro della querelle Guidi è emersa la norma del traffico illecito d'influenze, la cui storia e testo meritano di essere analizzati per comprendere quanto la politica italiana si sia esposta al populismo penale che oggi ne insidia la sovranità.

L’Europa ci chiedeva da anni di contrastare le illegalità legate al mondo della rappresentanza d’interessi, e il Governo Monti, nel 2012, sotto la pressione dell'anti-politica, aveva esaudito la richiesta di quanto previsto dalla Convenzione di Strasburgo del 1999, introducendo, con la legge anti-corruzione, il reato di traffico di influenze illecite (articolo 346-bis c.p.).

Tale articolo sanziona il ruolo del mediatore nei processi corruttivi, cioè colui che “sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”.

L’idea era quella di contrastare le note figure dei cosiddetti “faccendieri”, termine giornalistico vago ma tipologia umana esistente, che grazie alle loro relazioni con funzionari dello Stato e politici eletti creavano le premesse per instaurare un rapporto corruttivo tra il privato ed il pubblico ufficiale grazie alla loro mediazione remunerata.

Il problema che si presenta, a livello normativo, è legato al contenuto dei termini “indebitamente” ed “illecita”; se, infatti, non esiste in Italia alcuna forma di riconoscimento legale del lobbismo, chi ci assicura che l’azione penale non possa mettere gli occhi anche su coloro che esercitano, come in tutto il resto del mondo, l’attività di rappresentanza d’interessi senza dare luogo ad atti prodromici alla corruzione? I due termini sono vuoti di significato, poiché non esiste un confine per stabilire quando il ruolo del rappresentante d’interesse sia lecito o meno e se non s’interverrà rapidamente i canoni di liceità delle attività lobbistiche saranno decisi discrezionalmente prima dalle procure e poi dalle Corti.

Eppure, per definire quando l’attività di mediazione tra privati e pubblici ufficiali sia legale o meno, basterebbe guardarsi intorno. Non c’è bisogno di risalire al Lobbying disclosure act e alla successiva legislazione americana per comprendere quanto sia semplice legalizzare le pratiche lobbistiche, ma basterebbe volgere gli occhi a Bruxelles, dove esiste un registro dei lobbisti che garantisce legalità e trasparenza. In Italia, invece, si è preferito restare in una situazione di opacità, e questo status quo normativo comporta enormi problemi applicativi sia della norma penale sia di istituzionalizzazione del lobbying.

Inoltre, la repressione prevista dall’articolo 346-bis appare insufficiente e deficitaria. La pena è bassa e per questo non è possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche che, per reati di questo tipo, sono uno strumento d’indagine fondamentale. La norma è inoltre mal formulata e rischia di non essere mai applicata, in quanto punisce solo atti preparatori alla corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, ed è probabile che, rebus sic stantibus, i pubblici ministeri scelgano incriminazioni più efficaci dal punto di vista processuale come la tentata corruzione o il millantato credito. Non a caso, nella inchiesta che riguarda il compagno del Ministro, questa ipotesi di reato è stata affiancata all'abuso di ufficio.

Morale della favola: il traffico d'influenze illecite non è altro che una norma vaga, capace di allargare le maglie attraverso cui le procure possono penetrare nel campo della politica. Al di là del comportamento politicamente deprecabile del Ministro Guidi - che ha, peraltro, portato alle sue dimissioni immediate - ogni cittadino dovrebbe domandarsi se sia giusto che il potere giudiziario possa avviare azioni penali per atti legislativi (un emendamento nel caso specifico) che sono di competenza del potere legislativo ed esecutivo.

C'è un'intrusione palese delle procure sopra la sovranità della sfera politica. Una penetrazione che la stessa debole politica degli ultimi anni ha permesso a seguito di pressioni mediatiche a suon di norme discrezionali, mal formulate e populiste come il traffico illecito d'influenze. Un circolo vizioso grave da cui la Repubblica Italiana non riesce ad uscire, continuando ad indebolire l'autorevolezza di istituzioni e classe politica.

Dunque, cosa fare? Se da un lato manca una forma di legalizzazione delle pratiche lobbistiche, come potrebbe essere l’istituzione di un pubblico registro dei lobbisti, dall’altra abbiamo una norma penale che rischia di colpire anche chi esercita correttamente la professione del rappresentante d’interesse, senza però essere capace di punire incisivamente i casi in cui davvero vi sarebbe bisogno di un intervento penale. Buone regole, invece, permetterebbero invece maggiore efficienza, trasparenza e funzionalità nei rapporti tra mercato e regolatore che si manifestano nel gioco delle influenze creato dai fenomeni di lobbismo.

Un intervento in questo senso permetterebbe all’Italia di mettersi al passo delle liberal-democrazie mature tanto dal punto di vista della trasparenza quanto dal punto di vista della repressione penale. Sarebbe importante che, a partire da questa legislatura, si riuscisse a legiferare in merito alla creazione del registro dei lobbisti, e contemporaneamente ad intervenire sulla norma penalistica (per non dire "abrogarla del tutto"), per una migliore definizione tanto della fattispecie quanto della pena. Lo stato di cose presente danneggia la trasparenza, la professionalità, le istituzioni e le aziende stesse e fa del tema del lobbying un argomento non più rinviabile.