folla

Finito con le unioni civili, si passa all’eutanasia, poi forse verranno le droghe legali, magari le adozioni, e molto prima è stato aborto, divorzio, ecc ecc. La politica ha necessità di occuparsi di questioni etiche; ha il dovere di farlo per poter definire i limiti condivisi che le scelte individuali hanno nello spazio pubblico. E tuttavia la competenza della politica pertiene esclusivamente gli effetti pubblici delle scelte di coscienza individuali, non la coscienza collettiva di un paese, ed ancor meno la coscienza individuale delle persone che in quel paese vivono.

Per intenderci: a definire lo spazio etico delle mie scelte non saranno le leggi ma il mio patrimonio etico individuale. E questo vale ancor più per me credente: la mia coscienza di persona di fede è conformata alla volontà del mio Creatore, non del mio Parlamento nazionale. Questo perimetro di legittimità del me credente è - deve essere - più restrittivo di quanto consentito dalle leggi materiali dell’uomo, ma non può - non deve - avere valore coercitivo per tutti gli uomini.

La politica tende ad equivocare il proprio ruolo, e ritenere che il proprio compito sia esercitare la funzione normativa del diritto anche nella sfera intima - e sostanzialmente non tangibile - che è la coscienza individuale delle persone. Non è questo equivoco una prerogativa esclusivamente italiana, anzi: è una consuetudine distorsiva ma storicamente diffusa nello spazio pubblico a qualunque latitudine.

Il potere etico normativo che il legislatore rivendica a sé ha origine nella sensibilità religiosa prevalente e/o condivisa. Tuttavia, nell’affermare il valore normativo della coscienza collettiva sulla coscienza individuale, il legislatore religiosamente sensibile (e la lobby religiosa che lo spinge ad assumere quel ruolo eticamente normativo) in realtà volgarizza proprio la forza morale della stessa religiosità. Cioè, se devo porti limiti di legge all’agire della tua coscienza, evidentemente ritengo la tua coscienza non così eticamente blindata da prevenire da sé le scelte eticamente sbagliate. Ti impongo per legge di non uccidere perché la tua coscienza non è in grado di importelo da sé. Si presuppone così che la moralità individuale che si vuole prevalente - quella religiosamente ispirata - sia in realtà così debole da non bastare a definire la liceità dell’agire etico individuale.

La coscienza è una dimensione soggettiva ed è essa stessa fonte normativa primaria per ciascun individuo sensiente. E’ uno spazio negoziale autonomo e soggettivamente condizionato: io - non lo Stato, non il mio partito - negozio con la mia coscienza, intimamente. Non sono le leggi pubbliche a conformare lo spazio che la mia coscienza perimetra nel recinto del ‘bene’ e del ‘male’, né lo sono le pratiche pubbliche condivise. Io rifiuto l’omicidio non perché me lo vieti la legge, ma perché aborro l’idea di potermi ergere a boia della vita altrui. Me lo vieta la coscienza, appunto, la mia cultura, la mia sensibilità. E tuttavia - mi chiedo - potrei uccidere un kamikaze che si apprestasse ad innescare una cintura esplosiva in un affollato centro commerciale? Potrei uccidere un bruto colto ad usare violenza feroce contro un bambino? E potrei uccidere una persona che mi supplicasse di farlo, una persona afflitta da sofferenza fisica o morale insanabile? Cosa mi imporrebbe di fare la coscienza? Dubito mi chiederebbe di applicare la legge in vigore.

Il ‘bene’ non è immutabile. E non è pubblicamente definibile. Il bene è negoziato di continuo, è negoziato intimamente, non ha una forma data, non è immune da ipocrisia. Non è la legge che lo definisce. Non è il Parlamento - che è solo il luogo della negoziazione dello spazio pubblico condiviso - ad avere titolo a perimetrare la mia coscienza individuale, ed è una pretesa arrogante il solo pensarlo. Il solo pensare che io parlamentare abbia il diritto di occuparmi di conformare la coscienza dei miei simili ad una presunta coscienza collettiva disegnata sulla scorta di una negoziazione pubblica - in aula, in commissione, sui media - di questioni non pubblicamente definibili.

La politica ha il dovere di fissare regole di diritto, non regole morali. Ha il dovere di stabilire un confine tra - per dire - eutanasia e omicidio; tra aborto e omicidio, ma non di stabilire lo spazio individuale della moralità. E questo dovere è ancora più forte - non meno - per il parlamentare che creda in Dio.

La politica ha il dovere di impedire che un medico che conduca un malato terminale - su sua volontà - ad una morte dignitosa finisca in galera perché un consesso di esseri umani si arroga il diritto di stabilire in luogo della coscienza individuale del medico che agisce e della persona che subisce (la malattia, la non-vita) cosa sia moralmente degno, cosa sia il bene, cosa il male. 

Si comincia questa settimana a discutere in Parlamento di eutanasia, e sarebbe davvero importante che la determinazione a portare avanti la legge che potrà sanare l’abominio del suicidio per necessità di una persona costretta a non vivere in attesa della morte - e solo quella - venisse proprio da chi si riconosce figlio di Dio ed agente della sua volontà. Sarebbe l’affermazione inequivocabile del valore supremo che Dio ha concesso ai suoi figli: il libero arbitrio.

@kuliscioff