Nevermind utero

Dello shopping procreativo, che in modo sinistramente easy i media ribattezzano utero in affitto, dovremmo dire che sta solo un po' più in là, ma non così fuori linea rispetto al tema dei nuovi diritti connessi all'evoluzione dell'istituto familiare e della connessa libertà riproduttiva? Si tratta, in fondo, di una forma di procreazione assistita un po' più assistita, ma non meno "innaturale" della fecondazione eterologa, per cui chi è favore dell'una non dovrebbe spaventarsi dell'altra?

È questa una domanda che - comunque intendano rispondere - per primi dovrebbero porsi i sostenitori dell'idea che paternità e maternità, come concetti sociali, non abbiano di per sé il proprio limite morale nella possibilità o impossibilità materiale di "far figli", e che tutti possano legittimamente giovarsi dei rimedi che la medicina appresta per risolvere o aggirare i problemi di infertilità.

Visto che condividiamo questa premessa, pensiamo sia doveroso domandarsi se essa porti davvero così coerentemente alla difesa di principio della maternità surrogata come nuova frontiera dell'antropologia familiare.

Non azzardiamo una risposta - posto che davvero a questa domanda esista una sola possibile risposta, rigorosamente di principio e buona per tutti i casi - ma rifiutiamo che l'unica alternativa politica e civile possibile su questi temi sia tra il tutto o il niente, cioè tra due forme uguali e contrarie di assolutismo morale. Non pensiamo insomma che si tratti di scegliere se accettare che i figli (per tacere degli altri umani, donatori o surroganti, implicati nel processo riproduttivo) siano il semplice complemento biologico di un progetto di vita familiare, che emancipa il "che" della loro nascita dall'eventuale problematicità del "come", oppure se tornare a credere che uomini e donne siano semplicemente i mezzi della conservazione della specie umana, che si realizza per il loro tramite e secondo i limiti delle loro possibilità naturali.

Dal punto di vista culturale, questa alternativa coatta – o la natura matrigna, o la provetta selvaggia – è una trappola mortale proprio per chi vuole proseguire lungo una strada in cui tutti i passi avanti (sono molti e ancora ne mancano) si sono compiuti non opponendo a un categorismo astratto retrò uno tecno-pop, né sostituendo un pilota morale automatico ad un altro, ma distinguendo i problemi e le soluzioni e riconoscendo la natura evolutiva degli uni e degli altri, per trovare una rotta coerente con la realtà.

Per andare al concreto, è abbastanza complicato ragionare sul caso della bambina bloccata in Thailandia dalla madre surrogata (ma non ovo-donatrice), che si rifiuta di consegnarla al padre naturale, dopo averne scoperto l'omosessualità, come se da una parte ci fossero le tenebre del pregiudizio e dall'altra la luce della ragione.

Anzi, possiamo dire che una divisione del lavoro riproduttivo nei termini di un rapporto economico tra committenza e produzione di "materiale umano", allo scopo di preservare la continuità biologica del committente, rimanda più al modello arcaico della surrogazione riproduttiva imposta a un'efficiente fattrice da un signore protervo, snervato dalla sterilità della moglie e bisognoso di eredi, che a un'idea di genitorialità umanisticamente moderna? Da secoli, i mariti che vogliono figli sangue-del-loro-sangue ricorrono se serve alle domestiche, per poi intestarli alle mogli. E possiamo dirlo a maggiore oggi, dopo l'ennesimo richiamo della Corte europea dei diritti umani all'Italia sul tema del riconoscimento dei diritti delle coppie gay?