srebrenica

20 anni fa, l’11 luglio del 1995, si verificava una delle pagine più nere della storia europea.
 A Srebrenica oltre 8000 uomini e ragazzi di etnia musulmana venivano barbaramente uccisi dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic, nell’ambito del conflitto che da tempo sconvolgeva la regione. L’evento è ricordato come uno dei peggiori crimini di guerra che si sia mai verificato sul suolo europeo ed ad esso sono associate responsabilità di molti, anche con riferimento all’operato delle Nazioni Unite.



Nel 2004 il Tribunale Penale Internazionale per la Ex Yugoslavia ha riconosciuto il massacro di Srebrenica come “genocidio”, ai sensi della legge internazionale, cioè come un “atto inteso a distruggere […]un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
 Come recitano le conclusioni del processo, le forze serbobosniache “spogliarono tutti i prigionieri maschi musulmani, civili e militari, giovani ed anziani dei loro effetti personali e della loro documenti e li uccisero in modo deliberato e metodico, sulla sola base della loro identità”. 
Nei fatti, al di là dell’evidente valenza genocida di questo eccidio, i fatti di Srebrenica rappresentano un esempio da manuale di “genericidio”, cioè di sterminio selettivo rispetto al genere sessuale, anche se questo particolare aspetto è meno frequentemente oggetto dell’attenzione dell’analisi storica e del complessivo bilancio umanitario delle guerre yugoslave.

Il termine “genericidio” è stato coniato nel 1985 dalla femminista americana Mary Ann Warden nel suo libro Gendercide: The Implications of Sex Selection. 
Negli ultimi tempi in Italia è divenuto particolarmente familiare il termine “femminicidio”, in riferimento a quei delitti passionali di cui sono vittime le donne.
 La parola “femminicidio”, tuttavia, identifica in modo istituzionalizzato le donne nella parte delle vittime e, ça va sans dire, gli uomini nella parte dei carnefici. Questa scelta lessicale unilaterale non rende giustizia ad un intreccio tra genere e violazione dei diritti umani che è molto più complesso ed articolato. 
La Warden, da questo punto di vista, pur iniziando la propria analisi da casi di genericidio che colpiscono le donne, ha esplicitamente sentito la necessità di coniare un termine “neutro”, perché “le vittime possono essere sia maschili che femminili” e perché “le uccisioni selettive rispetto al genere sono sbagliate anche quando ad essere vittime sono gli uomini”.
 L’utilizzo di un termine gender-neutral è, quindi, fondamentale se quello che si desidera è approcciare determinate questioni in un’ottica realmente umanitaria, richiamando l’attenzione sulle conseguenze dei ruoli di genere sulla vita e sulle libertà fondamentali; insomma se l’obiettivo – che invece traspare ampiamente dalla campagna recente sul “femminicidio” – non è piuttosto quello di far guadagnare un credito spendibile politicamente alle donne o ai gruppi che se ne intestano la rappresentanza.

Le forme in cui un “genericidio” prende corpo possono essere le più diverse, in taluni casi più dirette, in altre più indirette. Negli ultimi anni il tema è stato oggetto di studio, tanto nelle sue singole declinazioni, quanto nella sua globalità ed in particolare risulta molto rilevante il lavoro dell’accademico ed attivista per i diritti umani canadese Adam Jones che nei suoi testi Gendercide and Genocide e Gender Inclusive: Essays on Violence, Men, and Feminist International Relations ha dedicato all’argomento tante illuminate pagine.



Il massacro di Srebrenica è l’esempio di una tipologia di “genericidio” che si manifesta in modo pianificato, cioè organizzato secondo una regìa. Si tratta di una forma di uccisione selettiva della quale sono quasi sempre vittima gli uomini e che tipicamente ricorre nei casi in cui il genericidio sia praticato con finalità genocide.
 In casi come quello bosniaco - ma simili pattern sono riscontrabili in tantissimi scenari di crisi – lo sterminio dei maschi è funzionale all’annientamento politico della parte nemica. Il solo fatto di nascere di sesso maschile significa indossare un’uniforme invisibile. Non c’è distinzione, tra militari e civili, perché ogni uomo, ragazzo e spesso bambino rappresenta un soldato potenziale da eliminare.

 I casi di sterminio pianificato di donne sono molto più rari. Uno dei più famigerati, per quanto su piccola scala, è quello che si verificò nel 1989 a Montreal, quando un giovane armato irruppe nell’Università, separò le persone presenti sulla base del sesso ed uccise 14 studentesse come rappresaglia contro le affirmative actions dalle quali si sentiva discriminato.

Un’altra tipologia di “genericidio” è legata a quelle dinamiche in cui lo sterminio di uno dei due generi non rappresenta di per sé un obiettivo intenzionale, ma è la naturale e diretta conseguenza di pratiche politiche ed istituzionali discriminatorie. 
L’esempio più eclatante è la coscrizione obbligatoria maschile. I paesi che scelgono di implementarla evidentemente non lo fanno in quanto desiderano l’uccisione dei propri giovani maschi, però nei fatti decretano la legittima spendibilità delle loro vite in nome di un superiore interesse nazionale. 
Il tributo di vite pagato alla coscrizione durante tutte le guerre la rende purtroppo la più rilevante pratica genericida della Storia moderna.

Se il termine “genericidio” può senza dubbio essere speso in relazione agli eccidi selettivi rispetto al genere, direttamente o indirettamente legate a scelte pianificate, molti ritengono che la parola sia ragionevolmente utilizzabile anche in relazione a fenomeni decentralizzati ed in particolare alla ricorrenza di tante uccisioni individuali.
 Prima ancora del tanto mediatizzato “femminicidio” italiano, a ricadere in questa categoria sono l’infanticidio femminile ed il feticidio femminile, particolarmente frequenti in alcuni paesi in cui una bambina è ritenuta una peso. In Cina questo fenomeno è diffuso al punto che tra i nati tra il 2000 ed il 2004 il rapporto tra maschi e femmine è di 124 a 100. Ricadono nella categoria di genericidi praticati a livello “individuale” anche i “delitti d’onore” di cui sono vittime le donne, specie nei paesi musulmani, e le “vendette di sangue” tra famiglie che invece colpiscono praticamente solo gli uomini, frequenti specie in zone come i Balcani ed il Caucaso e certo non sconosciute nel Sud Italia.

E’ senz’altro più dubbio parlare, invece, di “genericidio” a proposito di fenomeni di mortalità legati al genere sessuale, ma slegati dall’elemento dell’uccisione e quindi dalla presenza di un’agente. E’ il caso, per quanto riguarda le donne, delle morti per parto e, per quanto riguarda gli uomini, dei caduti sul lavoro. Su questi temi non è, peraltro, peregrino aprire una discussione sui modi più efficaci di ridurre al massimo queste tragiche evenienze, affinché quante meno donne possibile paghino con la vita il loro ruolo di madri e quanto meno uomini possibile paghino con la vita il loro ruolo di genere di breadwinner.

Insomma di genere si muore, in tanti modi e per tante ragioni – e nascere con un cromosoma Y non si rivela sempre e necessariamente un vantaggio. E’ bene averlo presente ed è per questo che è giusto ricordare gli uomini ed i ragazzi di Srebrenica non solo in quanto bosniaci, non solo in quanto musulmani, ma anche in quanto maschi vittime di "genericidio".