Gli italiani sono un popolo di poeti, santi, navigatori, c.t. della nazionale di calcio, e, più recentemente, costituzionalisti.

Tra le leggi appese alla sbarra della Consulta certo non potrebbe mancare quella - ripetutamente annunciata e rinviata - che portasse mai al riconoscimento delle unioni civili omosessuali o a un qualche surrogato, in salsa tedesca, del matrimonio gay. E tutti, dai parlamentari, ai cardinali, passando per il pubblico delle trasmissioni tv pomeridiane più popolari, discetterebbero con foga e passione della questione di costituzionalità della nuova legge, in attesa del verdetto, ovviamente incerto, degli oracoli della Corte.

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L'articolo 29 della Carta, in base al quale "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" in teoria non esclude affatto la famiglia e neppure il matrimonio omosessuale, poiché la "società" formata da due uomini o da due donne è altrettanto naturale, cioè spontanea, di quella formata da un uomo e una donna, e il matrimonio è (solo) la forma che regola nel diritto positivo i rapporti tra i "soci", non il fondamento del loro legame.

Il termine "naturale", in quel contesto, non attesta la naturalità della tendenza sessuale etero, a confronto di quella innaturalmente omo (questo lo può pensare solo Giovanardi), ma l'autonomia originaria della famiglia, come nucleo di affetti e di relazioni, dall'invadenza dello Stato. Non c'è, nella Costituzione, alcuna "eterosessualizzazione" né della famiglia, come formazione sociale, né del matrimonio, come istituto giuridico.

Non mancano del resto - anzi sono la netta maggioranza - i costituzionalisti che ritengono che le nuove famiglie, che quando la Costituzione venne scritta semplicemente non esistevano, possano trovare spazio nell'ordinamento giuridico senza contrastare affatto con le prescrizioni della Carta. E questo apparirebbe tanto più evidente quando l'istituto prescelto - la civil partnership o altro - per regolare le unioni gay in Italia fosse diverso dal matrimonio.

D'altra parte, nel 1946, non solo non c'erano le nuove famiglie (allargate, di fatto e gay), ma non c'era neppure la famiglia "tradizionale" come la conosciamo. Non c'era il divorzio. Non c'era l'uguaglianza giuridica né dei coniugi, né dei figli. C'era un modello di famiglia decisamente arcaico, maschilistico e padronale, che, a proposito di guerre di civiltà e di religione, assomiglia piuttosto a quello dei nostri "nemici" fondamentalisti, islamici e no.

D'altra parte non mancano - e come potrebbero? - costituzionalisti che sostengono che il riconoscimento di diritti in senso lato familiari a due uomini o due donne rappresenterebbe di per sé, al di là delle questioni nominalistiche, una violazione dei principi costituzionali.

Allora? Allora l'Italia ha davanti due scelte. La prima è quella di andare avanti - Alfano permettendo - sulla strada di una soluzione "alla tedesca", sperando che la sorte e la Corte Costituzionale gliela mandino buona. L'altra è quella di prendere il toro per le corna, come hanno fatto in Irlanda, e mettere direttamente mano alla Costituzione. La cosa implicherebbe un evidente allungamento dei tempi, e un "rischio democratico", quello del referendum confermativo, che renderebbe però sia politicamente che giuridicamente indiscutibile il responso su di una questione che altrimenti rischia di trascinarsi per anni nel latinorum incomprensibile degli addetti ai lavori.

Che si scelga la strada della legge ordinaria o della riforma costituzionale, non cambierebbero gli schieramenti in Parlamento, e nemmeno nel Paese. E la scelta di andare "davanti al popolo" a misurare il consenso su questa scelta potrebbe alla fine anche essere la decisione più prudente.

@querlu