La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) relativa all'affaire Contrada rappresenta, ancora una volta, un emblematico esempio di come la stampa italiana non perda il vizio di inseguire le dichiarazioni di commento senza chiedersi, nel merito, cosa sia stato deciso e in base a quali ragioni. Invertiamo, allora, il metodo e chiediamoci, anzitutto, quale sia il contenuto della sentenza per poi provare, solo dopo averne analizzata la motivazione, a sintetizzare qualche rapida riflessione.

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L'obbligatoria premessa è che la Corte Europea non valuta le scelte politiche dei legislatori nazionali e, dunque, non sovrappone la propria valutazione politica di efficacia delle norme. Alla stessa stregua non interferisce nell'interpretazione del diritto nazionale dei paesi membri, che spetta ai tribunali e alle corti di ciascuno di essi. Il suo ruolo si limita alla verifica della compatibilità con la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo degli effetti delle norme e delle interpretazioni giudiziali.

Nel caso in esame, è stata sottoposta all'esame della CEDU la conformità rispetto all'art.7 della Convenzione Europea della condanna inflitta all'ex capo del SISDE Bruno Contrada per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. L'art. 7 della Convenzione è quello che attribuisce al cittadino il diritto di essere posto in condizione di conoscere in anticipo la norma penale per poter ragionevolmente prevedere l'applicazione che i giudici ne faranno nel caso concreto. È una garanzia di legalità del sistema che non ammette deroga neppure in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione ed è un presidio contro l'arbitrio dei detentori del potere.

Nel ricorso alla CEDU, i legali di Contrada hanno rilevato che, tra l'epoca dei fatti (dal 1979 al 1988), e quella delle sentenze (condannato in primo grado nel 1996; assolto in Appello nel 2001; annullamento della sentenza di assoluzione in Cassazione nel 2002; condannato nel giudizio di rinvio nel 2006; rigetto del ricorso in Cassazione nel 2008), il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ha registrato numerosi mutamenti di interpretazione e che l'evoluzione della giurisprudenza in materia è posteriore rispetto ai fatti oggetto delle condanne.

Già. Perché il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso è un istituto "di elaborazione giurisprudenziale": i suoi elementi non sono tipizzati da una norma, ma vengono ricostruiti grazie ad un adattamento al reato associativo (art. 416 bis c.p.) delle norme generali in tema di concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.). Come ricordato dal prof. Fiandaca sul Foglio del 15 aprile, "questa logica combinatoria presenta qualche complicazione in più a causa delle peculiarità del reato associativo, che è a sua volta un tipo di reato sui generis. Da qui la obiettiva difficoltà per la giurisprudenza di procedere a una tipizzazione giudiziale del concorso esterno soddisfacente sotto tutti i possibili aspetti".

Ripercorrere le (tante e complicate) questioni giuridiche poste all'attenzione della Cassazione nel corso dei decenni è impresa titanica ed esula dai propositi di chi scrive.

Il dato certo, come riportato dalla motivazione della CEDU, è che tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, la giurisprudenza della Suprema Corte italiana ha talvolta negato la possibilità di configurare il reato di concorso esterno. Soltanto con la sentenza Demitry delle Sezioni Unite del 16-10-1994 e con quelle successive a carico di Carnevale e Mannino, il consolidamento degli arresti giurisprudenziali è giunto a stabile compimento, ammettendo senza riserve la condotta di concorrente esterno a dolo generico, innestata in un reato associativo a dolo specifico.

In sintesi, il concorrente esterno è stato definito come colui il quale non fa stabilmente parte dell'associazione ma al quale il sodalizio criminale si rivolge in un momento di temporanea difficoltà della vita associativa. All'epoca dei fatti (1979-1988), tuttavia, il quadro normativo e giurisprudenziale non era così chiaro. Non abbastanza, secondo la CEDU, per consentire a Contrada di distinguere il lecito dall'illecito, ragion per cui non andava condannato per concorso esterno ed oggi ha diritto ad un risarcimento di 10.000 € per danni morali.

È del tutto evidente che la decisione della CEDU, se letta attentamente, contiene considerazioni tutt'altro che scontate, che vanno ben al di là della vicenda specifica. L'invocato principio di legalità dell'art. 7 della Convenzione non è, per la CEDU, la semplice fotocopia del nostro art. 25 della Costituzione (quello per cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso), perché la portata della garanzia va estesa, oltre alla legge, alla concreta applicazione da parte dei tribunali. In altre parole, occorre che il cittadino, per conformare il proprio comportamento, sia posto in condizione di sapere in anticipo, oltre al contenuto della legge, anche il modo in cui essa verrà applicata nel caso concreto.

La non derogabilità dell'art.7 in caso di guerra o di altre situazioni che compromettano la sicurezza nazionale, dalla mafia al terrorismo interno o internazionale, dovrebbe suggerire, ai legislatori nazionali, di ancorare a condotte certe, descritte in maniera chiara e sintetica, i comportamenti vietati, per evitare il più possibile future controversie interpretative. In un paese come l'Italia, facile all'uso della legislazione emergenziale, la sentenza della CEDU dovrebbe essere letta e meditata con attenzione, al di là della polemica giornalistica su Contrada e su cosa pensassero di lui Falcone o Caponnetto.

Ragionevole conoscibilità di una norma e prevedibilità della sua applicazione altro non sono che il diritto, per il cittadino, di avere a che fare con norme chiare e precise che consentano di sapere con certezza quali comportamenti sono considerati vietati. La storia del concorso esterno è l'esatto opposto e la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo non poteva non accorgersene.