Il pontificato di Bergoglio, più che un vero regime change teologico e politico, ha comportato un radicale ripensamento del ruolo e del baricentro della Chiesa nel mondo contemporaneo.

papa retro

Chi crede che il grande elettore del Papa sia alla fine lo Spirito Santo dovrebbe concludere che la consapevolezza, divinamente ispirata, di una riforma francescana della missione e dell'identità della Chiesa era maturata nel Conclave e nella coscienza diffusa della cattolicità ben prima che il vescovo argentino chiamato al soglio di Pietro dicesse "Buonasera" al mondo dalla loggia di San Pietro, annunciando di chiamarsi Francesco.

Nel nome c'era il programma e il senso di una "differenza cristiana" molto diversa da quella cara a Benedetto XVI, che intimava ai cristiani di ritrovarsi nei valori della tradizione culturale – e dunque di una testimonianza, in senso stretto, né personale, né esistenziale – tanto quanto il successore li istiga a perdersi nell'esperienza della fede, peregrinando nell'enorme ospedale da campo della sofferenza universale che è la Chiesa e nella frequentazione delle identità meticce e incoerenti di quel miliardo di cattolici, che cercano e trovano Dio ognuno a suo modo – e "chi siamo noi per giudicare?".

Papa Bergoglio, senza consumare vere rotture sul piano dottrinario, ha dunque rideterminato il senso della questione antropologica, che prima era essenzialmente legata ai temi dell'etica sessuale, familiare e riproduttiva e ora è invece ancorata a un'idea di dignità e di giustizia nelle relazioni umane, che ha al centro il crisma e lo scandalo della povertà.

Si potrebbe dire (molto superficialmente) che dalla caritas in veritate si è passati alla veritas in caritate, dal primato del giudizio a quello della misercordia, a cui Francesco ha anche intitolato il Giubileo straordinario, che si aprirà esattamente 50 anni dopo la conclusione del Concilio Vaticano II. Peraltro, per quanto appaiano anacronistici gli approcci di Benedetto e Francesco rispetto ai temi core dei rispettivi pontificati, è probabilmente erroneo e non solo ingeneroso addebitare il "moralismo" dell'uno a una mera bigotteria e il "socialismo" del secondo a una sorta di conformismo terzomondista post-guevarista.

La Chiesa dei due papi viventi è dunque un'istituzione e una realtà in movimento, che si specchia in diverse e anche inconciliabili idee di sé e della propria missione. Ma questa dialettica, questa tensione profonda divide la Chiesa anche sulle questioni di "geopolitica religiosa", che, dopo l'11 settembre e in modo sempre più minaccioso dopo l'avanzata terroristico-statuale dell'islamismo fanatico, rappresentano per il mondo cristiano un vero pericolo esistenziale, al di là, ma ormai anche di qua, dei confini storici della cristianità? La Chiesa di Francesco risponde alla minaccia diversamente da come rispondeva la Chiesa di Benedetto?

I due attentati talebani che sono ieri costati la vita a 15 cristiani, cattolici e protestanti, in Pakistan trovano una Chiesa più o meno preparata e consapevole della risposta possibile o necessaria? Forse la risposta giusta potrebbe essere: altrettanto impreparata, perché altrettanto riluttante ad accettare la portata radicale della sfida che la riguarda.

Se c'è infatti un tratto comune alla Chiesa di Benedetto e a quella di Francesco è certamente la volontà di sottrarsi all'identificazione politica tra cristianesimo e Occidente. Per ragioni giuste e del tutto comprensibili, visto che il perimetro della cattolicità esorbita ampiamente da quello dell'Occidente storico-politico e cresce innanzitutto, in termini sociali e demografici, nelle terre di più recente evangelizzazione. Ma anche per ragioni più discutibili e politicamente contraddittorie, poiché le rivendicazioni di libertà e di diritto che la Chiesa avanza dinanzi alle discriminazioni e persecuzioni, che in molti Stati africani e asiatici – non solo islamisti, ma anche post-comunisti – essa continua a subire, apparentano in modo indissolubile l'universalismo cristiano a quello lato sensu democratico e il suo proselitismo religioso all'espansionismo (oggi tutt'altro che travolgente) della libertà civile e politica.

C'è un comprensibile calcolo di opportunità, oltre che un evidente problema di coerenza, nel rifiuto di fiancheggiare un concetto etnico-identitario dell'ideale cristiano, che oggi mobilita in funzione anti-islamica le destre nazionaliste e xenofobe. Ma non c'è niente di logicamente comprensibile, né di coerente nella pretesa terzietà politica che la Chiesa esibisce.

Tra le molte ragioni di diffidenza e perfino di disprezzo che la Chiesa ha maturato nei confronti delle società relativistiche, non ce n'è alcuna – né quelle che scandalizzano la sensibilità francescana, né quelle che offendono la morale tradizionale – che possa anche solo minimamente giustificare l'equidistanza o la neutralità rispetto allo scontro in corso, in cui il destino della Chiesa, anche in partibus infidelium, si gioca interamente dentro quello della "vecchia" alleanza euro-occidentale e del suo modello di vita e convivenza civile. La libertà religiosa è serbata e difesa dall'apparente anomia delle società secolarizzate.

La guerra calda dell'Isis non è da questo punto di vista diversa dalla vecchia guerra fredda contro l'impero comunista. Non è una guerra interreligiosa, è un conflitto ideologico-politico, che dalla nostra parte del mondo, peraltro, non è solo la Chiesa a continuare a negare o a relativizzare nella sua portata globale e neppure essenzialmente terroristica. I "fratelli" prossimi dei martiri cristiani di Lahore sono i parigini atei di Charlie Hebdo. Una verità che né Francesco, né Benedetto si sentirebbero di sottoscrivere, ma che continuerà a incombere anche sul prossimo Giubileo e a ingombrarlo di funesti presagi, finché qualcuno non deciderà scandalosamente di pronunciarla.

@carmelopalma