Ha senso interpretare l’islamismo in una chiave meramente religiosa? Il jihadismo è la traduzione politica delle prescrizioni del Corano o non è piuttosto un fenomeno ideologico simile al terrorismo fascista o comunista? I terroristi cercano il paradiso dei martiri o una forma di appartenenza collettiva esclusiva? Sono domande cui occorre rispondere laicamente, guardando alle caratteristiche sociali di un fenomeno complesso, nel quale la fede religiosa, più che un fine, potrebbe essere semplicemente la maschera di una rivolta nichilista.

Leanza

Scrivere di islamismo senza inciampare nel “recentismo” è una cosa complicata. Ma riflettere su questo fenomeno al di là delle contingenze – gli attentati, le dichiarazioni, gli scandali quotidiani legati alla propaganda o al terrorismo intestati al nome del Profeta – è tuttavia necessario per comprendere quale sia il nemico con cui ci stiamo misurando, quali siano le sue caratteristiche di fondo e soprattutto quanto sia rappresentativo dell’Islam genericamente inteso, cioè della religione monoteista destinata a crescere maggiormente nei prossimi decenni, fino a eguagliare, nelle previsioni, il numero dei fedeli delle confessioni cristiane.

In realtà l’obiettivo non è di proporre diagnosi o soluzioni: anche ammesso che esistano, servirebbe una preparazione imparagonabilmente più profonda. Meglio invece cercare, nel tornado di parole che gira attorno alle nostre democrazie turbate dal terrorismo, il filo rosso per un dibattito impostato su temi più utili. O almeno in parte mondato dagli straw-man argomentativi. Centrare meglio il bersaglio per impiegare più vantaggiosamente le forze, non solamente contro il terrorismo.

 

Islam e islamismo

Un primo aspetto fondamentale, spesso tralasciato nel dibattito pubblico, sta nella necessità di separare l’Islam dall’islamismo. Intendendo il primo come religione musulmana, il secondo come ideologia che vorrebbe l’Islam alla guida della vita politica di un Paese o dell’umanità tutta. Da una parte la religione, dall’altra l’ideologia. Beninteso: i due concetti sono ovviamente collegati, ma la comprensione dell’Islam (peraltro molto più complesso) dovrebbe essere strumentale a quella dell’islamismo, che è il nostro vero nemico. Le molte pagine interessanti che sono state scritte negli ultimi anni da Hamed Abdel-Samad, Alexandre Del Valle, Hamid Zanaz e altri non hanno a oggetto la fede di un miliardo di esseri umani, ma l’ideologia islamista. O, come l’hanno spesso chiamato, il “fascismo islamico”.

Questo è già un passo avanti fondamentale rispetto alle irrisolvibili polemiche di Oriana Fallaci sulla vera natura della religione musulmana, perché comporta la non riconducibilità dell’islamismo nello schema del confronto fra religioni, bensì nella più utile dicotomia fra società aperta e società totalitaria. In tal modo, esso andrà paragonato a fascismo e comunismo, invece che a cristianesimo ed ebraismo. E il terrorismo islamista a quello rosso (o nero) che abbiamo già dovuto affrontare in Italia.

Attenzione però a non pensare che questo difetto di prospettiva riguardi solo la destra: quante volte da sinistra si sono sentite considerazioni come: “i terroristi non sono veri musulmani” (varrebbe a dire che i brigatisti non erano davvero comunisti perché l’elettore medio di Berlinguer era una brava persona). O ancora che l’Islam “è una religione di pace” (la storia dimostra palesemente e continuativamente il contrario, ma ciò ovviamente non significa che i musulmani siano necessariamente guerrafondai). Il che conduce all’utilizzo frequentissimo nel dibattito pubblico di altre categorie fuorvianti: i celeberrimi “musulmani moderati”, ad esempio. Categoria che viene contrapposta ai terroristi. E comporta ulteriori incomprensioni: salta a piè pari la questione della “zona grigia”, fondamentale per la comprensione di ogni fenomeno terroristico; riporta la discussione a una inestricabile dimensione religiosa/spirituale; appiattisce allo stesso livello il credente pienamente occidentalizzato e il bigotto retrogrado. È in sostanza un’etichetta inutile: ha senso per esempio definire Davide Piccardo, timido simpatizzante di Erdogan, oscurantista anti-scienza che vorrebbe si introducesse in Italia la poligamia o che si batte perché venga abolito l’alcol, un “moderato” solo perché, presumibilmente, non è un violento o sostenitore del terrorismo ma anzi è ben inserito nella nostra vita sociale? O ancora, che dire dei dati raccolti da Michele Groppi, e brevemente discussi anche in una puntata di Otto e mezzo con ospite la consigliera milanese del PD Sumaya Abdel Qader, in cui si segnalavano fra i musulmani italiani percentuali di antisemitismo “fra il 60 e l’80%” degli intervistati? Tutti “moderati” in quanto non legati al terrorismo?

 

Laicità in senso ampio...

La distinzione utile è invece fra musulmani laici e no, intendendo la laicità in senso ampio. Un concetto chiave che è stato ben sottolineato dal noto pensatore “new atheist” Sam Harris, riferendosi nel caso specifico alla religione cristiana. Percentuali molto alte di americani, anche in sondaggi di pochi anni fa, affermavano di considerare la Bibbia un testo sacro. Eppure anche le sacre scritture dei cristiani, in particolare (ma non solo) nell’Antico Testamento, sono colme di precetti patriarcali, violenti o semplicemente primitivi, incompatibili con l’attuale società americana. Com’è allora possibile che in così tanti considerino quel testo “sacro”?

La risposta di quasi tutti i credenti era che in realtà non davano importanza ai precetti violenti (che spesso neanche conoscevano): consideravano sacro l’insegnamento evangelico, e in particolare la regola aurea “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ma allora – questo era il punto fondamentale sottolineato da Harris – non è il testo di per sé a contenere verità in quanto sacro: sono i credenti che con la loro testa, all’interno di un “testo sacro”, scelgono quali insegnamenti siano da salvare e quali da lasciare alle polveri della storia. Non pendono dalle parole di un testo di millenni fa, ma compongono attivamente il loro pantheon valoriale, più o meno elaborato.

Questa mentalità, di gran lunga prevalente in occidente, è frutto del fondamentale portato dell’Illuminismo, riassunto da Kant nel motto “Sapere aude”: l’invito a usare la propria intelligenza, a uscire dallo stato di “minorità”, ovvero di incapacità di avvalersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa è la vera maturazione culturale dei musulmani che, nel più breve tempo possibile, dobbiamo attendere. Nel frattempo dovremo sapere accogliere l’occidentalizzazione degli islamici senza scambiarla per islamizzazione dell’occidente (penso alla tensione provocata lo scorso anno dall’elezione del nuovo Sindaco di Londra). Certo, per molti musulmani non sarà e non è un passaggio semplice. Da questo punto di vista meritano di essere lette con attenzione (ma senza portarle a estreme conseguenze) le parole del pensatore laico Hamid Zanaz, nel suo pamphlet Sfida laica all’Islam: «Se la Bibbia resta essenzialmente una narrazione in entrambe le sue parti, l’Antico e Nuovo Testamento, il Corano si presenta invece nel suo complesso come un insieme di ordini, prescrizioni e detti. La parola di Dio. L’approccio al Corano è quindi totalizzante, mentre il credente cristiano può al giorno d’oggi esprimere delle riserve o addirittura rifiutare il senso di un passaggio biblico senza che questo significhi rinnegare la propria fede. Per i musulmani, dire “è scritto che” è sufficiente a chiudere il dibattito.»

 

… e in senso stretto

Una volta superata questa fondamentale soglia, abbracciata la visione del “Sapere aude”, la naturale conseguenza è la laicità in senso stretto: la rivendicazione della separazione fra Stato e religione. Se rivendico la mia capacità di ragionare, di discernere autonomamente, in quella stessa rivendicazione esigo la libertà dai ragionamenti e dalle scelte degli altri. E quindi dalle chiese. Non è un caso che, come ci ricorda Bertrand Russell, il liberalismo nacque in Olanda e Inghilterra come conseguenza del protestantesimo: se i concili generali possono sbagliare, definire la verità diventa impresa non più sociale, ma individuale. E siccome gli individui arrivano a conclusioni differenti è necessario trovare formule di convivenza. Appunto la laicità: uno spazio preservato dalle posizioni religiose o morali delle maggioranze o di chi governa, a tutela dell’individuo. L’etica umanista e la tolleranza rappresentano gli altrettanti inevitabili corollari di questo approccio epistemico.

 

Il jihadismo è uno sport di squadra

Resta da analizzare a grandi linee il rapporto del jihadismo con la religione: tema che, tralasciando le opinioni da bar, potrebbe clamorosamente contraddire alcuni fra i più influenti intellettuali secolaristi di oggi. È interessante innanzitutto una nota considerazione del grande studioso Olivier Roy, per cui saremmo davanti a un’islamizzazione dell’antagonismo sociale e generazionale piuttosto che a una radicalizzazione dell’Islam storico. Anche per questo gli infiniti dibattiti sulla storia dell’Islam rischiano di rivelarsi sterili o addirittura portarci fuori strada. Ci sono probabilmente due prospettive per affrontare il problema della religione alla base del terrorismo: quella dei “new atheist” e quella proposta da Jonathan Haidt nel suo interessante saggio Menti tribali.

Fra i primi possiamo citare Daniel Dennett, che comincia il suo saggio Rompere l’incantesimo riferendo di un minuscolo parassita che invade il cervello delle formiche e le induce ad arrampicarsi in cima ai fili d’erba, dove potranno essere mangiate più facilmente dagli animali al pascolo. Il comportamento è suicida per la formica, ma è adattivo per il parassita, che ha bisogno del sistema digerente di un ruminante per riprodursi. Dennett sostiene che le religioni sopravvivono perché, come quei parassiti, inducono i loro ospiti a fare cose deleterie per se stessi (per esempio gli attacchi suicidi) ma vantaggiose per il “parassita” (per esempio l’Islam). Analogamente, l’ancora più noto Richard Dawkins descrive le religioni come virus. Proprio come il virus del raffreddore induce il suo ospite a starnutire per diffondersi, le religioni che prosperano inducono i loro “ospiti” a spendere risorse preziose per diffondere l’infezione. La visione “new atheist” ha riscosso grande successo, e si basa su uno schema di psicologia religiosa elementare: credere è uguale a fare. Credo nell’Islam radicalizzato e quindi compio attentati.

Questa visione si rivela però erroneamente semplicistica secondo Jonathan Haidt, psicologo morale che adotta lo schema di psicologia religiosa di Durkheim: la religione si fonda su una circolarità composta da tre elementi ugualmente connessi: credere, fare e appartenere. Il modello durkheimiano afferma che la funzione di tali credenze e pratiche è, in definitiva, quella di “creare una comunità”, analogamente al tifo sportivo o a una militanza politica. Spesso le nostre credenze sono costrutti post-hoc destinati a sostenere il gruppo di cui facciamo parte, e quindi il nostro senso di appartenenza. Questo secondo modello è decisamente più utile rispetto allo schema tipico dei “new atheist” per la comprensione del jihadismo: anche perché, come si nota immediatamente, è perfettamente adattabile anche alle forme di terrorismo comunista o fascista che abbiamo già subito nella nostra storia e che nulla c’entravano con la religione. L’errore “new atheist” è quindi lo stesso che si incontra spesso nel dibattito pubblico: una prospettiva troppo ristretta e focalizzata sulla qualità delle credenze. Se alcuni cattolici prospettano uno scontro fra religioni, questi intellettuali atei pongono una dicotomia analoga fra credenti e non credenti. Ma, come splendidamente riassunto da Haidt: cercare di comprendere la potenza attrattiva della religione e il fervore che ispira studiando le credenze relative a Dio, sarebbe come cercare di comprendere la potenza attrattiva del calcio e del tifo studiando i movimenti della palla e dei giocatori.

 

Conclusioni

Ecco perché, per tornare alla considerazione di Roy, è più importante concentrarsi sull’islamizzazione dell’antagonismo che non sulle caratteristiche dell’Islam. Che beninteso resta, nell’insegnamento della storia, una religione violenta, patriarcale, con innegabili germi totalitari, che nello scorso secolo ha conosciuto una stretta alleanza con fascismo e nazismo e che ancora oggi vede tra i suoi fedeli quote di antisemitismo e antiatlantismo allarmanti. L’Islam è islamista, come il comunismo è totalitario: ciò non vuol dire però che lo fossero anche gli elettori di Berlinguer. E dovremo accogliere a braccia aperte il percorso di coloro che, restando credenti, filtreranno la loro fede occidentalizzata (e quindi laicizzata) attraverso simbologie e concetti tipici della loro cultura musulmana.

Ma l’Islam rappresenta la nuova colorazione dell’antagonismo che abbiamo già affrontato e che ha sempre lo stesso nemico: la società aperta. L’islamismo nelle nostre società si nutre della frustrazione e del nichilismo, dei vuoti e delle sacche divisorie: in sostanza della ricerca di una comunità cui appartenere, analogamente a quanto accade con le altre religioni e ideologie. Ecco perché sarebbe del tutto illusorio pensare che la sua forza attrattiva possa affievolirsi con la prossima sconfitta dell’Isis. Altro fenomeno analogo a quello che abbiamo ben conosciuto in Italia negli anni ’70.

È del tutto evidente che, se sapremo mantenere le nostre qualità di società aperta, la guerra contro questa ennesima febbre totalitaria sarà già vinta, al netto del tragico numero di vittime del terrorismo. Certo, ci vorranno decenni, nei quali nel frattempo gioverà rafforzare sempre più il nostro senso di comunità occidentale. I “separazionismi” identitari e xenofobi da destra, così come i terzomondismi tesi a nutrire un eterno senso di colpa occidentale e i giustificazionismi da sinistra, rischiano solo di portarci nella direzione opposta.

@SteLeanza