Il pregiudizio sull’incompatibilità tra la fede islamica e la libertà religiosa rischia di essere una profezia che si autoadempie. Così anche il vecchio continente diventa un campo di battaglia della guerra civile islamica. Il “catastrofismo religioso” non aiuterà l’Europa a governare le trasformazioni demografiche e i rischi strategici, né a difendere la laicità come spazio comune di libertà politica e civile.

Palma piedi

Qualche numero fa, dedicammo una monografia di Strade (“Sotto pressione”, gennaio/febbraio 2016) al tema dei fenomeni migratori e della variabile demografica come chiave determinante per interpretare i processi politici e economici globali, a partire dal “ripiegamento” del vecchio continente alla ricerca delle sicurezze perdute.

In quell'occasione, provammo a spiegare come il catastrofismo demografico, che per anni ha dominato la retorica progressista ed ecologista e oggi alimenta, di fatto sulle stesse basi, quella nazionalista e xenofoba, sia sempre meno fondato dal punto di vista scientifico, poiché l'alfabetizzazione e la crescita economica dei paesi in via di sviluppo stanno portando lentamente verso una convergenza degli indici di natalità. Il pessimismo, sempre più immotivato, verso gli effetti esplosivi della sovrappopolazione continua però a dimostrarsi decisamente contagioso dal punto di vista politico.

Il rapido cambiamento dei rapporti di forza demografici, infatti, fomenta illusioni di chiusura - "decresciste", autarchiche e protezioniste - proprio nei Paesi che l'aumento del tasso di dipendenza demografica (il rapporto tra la popolazione anagraficamente inattiva e quella attiva) espone non al rischio, ma all'obiettiva necessità di un ricorso crescente a forza lavoro immigrata e di un radicale ripensamento dei sistemi di welfare.

Anche la questione islamica, per come l'Europa è oggi chiamata ad affrontarla, ha nei suoi termini politico-religiosi un'importante componente demografica. Con questo numero, dunque, in sostanziale continuità con quello dedicato alla pressione migratoria, proviamo a dimostrare che anche il “catastrofismo religioso”, come analisi, ha basi di fatto perlomeno opinabili e, come proposta politica, effetti collaterali tutt’altro che raccomandabili per chi in Europa abbia davvero a cuore la difesa della libertà religiosa come principio della vita collettiva e come diritto della vita individuale di credenti e non credenti.

La temuta islamizzazione del vecchio continente è considerata nella vulgata un effetto inevitabile del travaso demografico tra le due sponde del Mediterraneo, che l'esplosione dell'ordine politico post-coloniale ha accelerato e che la radicalizzazione dei paesi musulmani rende particolarmente minacciosa. In questo sentimento di pericolo incombente e ancora indeterminato nei suoi effetti di lungo periodo sarebbe sbagliato ravvisare solo un riflesso "proto-razzistico".

La questione islamica è un problema politico interno dell'Italia e di tutti gli stati europei, perché l'espansionismo ideologico dell'islamismo politico - non solo di quello jihadista - è una minaccia strategica e un fattore di oggettiva destabilizzazione degli equilibri globali.

L'Europa si scopre drammaticamente vulnerabile al terrorismo fai-da-te degli irregolari auto-reclutati nelle reti post-qaediste, ai ricatti di vecchi e nuovi alleati anti-Isis (dall'Iran nuclearizzato di Rohani alla Turchia slaicizzata di Erdogan) sfacciatamente ostili ai valori occidentali e alla cronica inaffidabilità dei Paesi del Golfo. Per non parlare della penetrazione islamista nelle aree dell’Africa del nord e sub-sahariana e dell’Asia meridionale e sudorientale, dove ogni anno il terrorismo miete migliaia di vittime.

È comprensibile che gli europei avvertano gravare sul "proprio" islam le stesse ombre che si allungano su quello globale. A ciò si aggiunge che i modelli di integrazione finora sperimentati nei paesi europei non hanno funzionato come avrebbero dovuto né sul piano sociale, né su quello civile, e non hanno rafforzato un tessuto di relazioni fragili, dominate da sentimenti di reciproco sospetto ed estraneità. L'islam europeo vive, per lo più, da "separato in casa", in una condizione in parte voluta e in parte subita. Rimane l'indiziato speciale per fenomeni di radicalizzazione religiosa e politica, che invece nel vecchio continente maturano quasi esclusivamente fuori e contro i centri di culto e le istituzioni culturali che animano la difficile vita pubblica delle comunità islamiche. Ma rischia di apparire ambiguamente silente o scarsamente partecipe alla discussione che lo riguarda o di finire, suo malgrado, rappresentato da provocatori di professione o agitatori di piazza, educati allo stile dell’estremismo politico.

Intanto l'islam europeo cresce nei numeri, se non nella consapevolezza di sé. La popolazione musulmana in Europa passerà, secondo stime attendibili, dal 6% dell'inizio di questo decennio a circa il 10% nel 2050. Molto meno di quanto possa far pensare al rischio della "sostituzione etnico-religiosa", agitato dalla propaganda xenofoba, ma molto di più di quanto consenta di continuare ad affrontare il dossier dell'islam europeo con un mix di insofferenza e di negligenza.

Tutto questo costringe a ripensare l'Europa e a riconoscerla in un'identità storicamente mutata, ma non a rinnegarla nei suoi fondamenti costituzionali, a partire dalla difesa della tolleranza e del pluralismo religioso. Per le medesime ragioni, costringe anche gli islamici che vivono e vivranno in Europa a misurarsi con le loro nuove e sempre più profonde radici nello spazio comune di libertà garantito proprio della laicità europea e con la responsabilità di dovere concorrere alla sua difesa.

Gli islamici che vivono in Europa, e in generale in Occidente, nonostante il vento del pregiudizio e del sospetto che spira potentemente contro di loro, sono gli islamici più liberi del mondo. Più liberi di esserlo e di diventarlo. Più liberi di discutere e abbandonare la religione dei padri, ma anche di riscoprirla e di rinnovarla. Sono proprio gli islamici europei quelli che oggi hanno più da perdere dalla piena identificazione tra l’islam religioso e l’islamismo politico e dalla trasformazione della guerra civile islamica all’interno del mondo sunnita, e tra sunniti e sciiti, in una guerra civile europea. Non è la loro guerra, non è la nostra guerra, ma potremmo finire per rotolare in essa per inerzia, conformismo culturale e isteria democratica.

Non è un auspicio ottimistico, ma una valutazione realistica delle opportunità e degli incentivi in campo a suggerire però la possibilità di sfuggire all’alternativa tra un’Europa anti-islamica e un islam anti-europeo, che i tanti muri materiali e simbolici che tornano ad attraversare il vecchio continente sembrano rendere inevitabile e perfino “giusta”, nella sua apparente chiarezza. È una possibilità che va costruita ripartendo quasi da zero, all’interno e all’esterno del fronte europeo, con una strategia che leghi politiche di difesa e di sicurezza (di cui proprio il governo italiano è tornato meritoriamente a parlare, in una chiave coraggiosamente comunitaria) e prove tecniche di dialogo meno sciattamente propagandistiche delle polemiche sui presepi o di quelle sui burkini. Bisogna avere chiaro da dove si parte, senza eludere incomprensioni e difficoltà. Ma bisogna avere ancora più chiaro dove si vuole arrivare e quali sono i pericoli che occorre scongiurare.

Il pregiudizio sulla incompatibilità tra la fede islamica e la cultura europea fondata sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla tolleranza rischia di essere una profezia che si autoadempie. Il paradosso è che il feticcio di un Islam “puro” (del tutto destoricizzato e deculturalizzato), agitato dai banditori della guerra jihadista, rischia di diventare in Europa tanto il surrogato dell’identità islamica, quanto l’alibi della diffidenza anti-islamica.

@carmelopalma