Il Jobs Act non è la panacea di tutti i mali, ma una tessera importante di un puzzle di riforme ancora da realizzare. L’importante è non fermarsi qui.

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Il Governo italiano nell'ultimo anno ha approvato una delle più importanti riforme della storia del mondo del lavoro. L'obiettivo dichiarato della riforma è promuovere l’applicazione generalizzata del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti grazie a forti incentivi alle imprese che assumono.

Questa è la scommessa che, se vincente, potrebbe costituire un significativo impulso alla crescita dell’occupazione. Dopo il notevole spazio rivolto al lavoro a termine “liberalizzato”, operato con la legge n. 78/2014, il fatto che oggi si torni a puntare sul lavoro a tempo indeterminato, seppur “a tutele crescenti”, con incentivi sul piano fiscale e contributivo – “legge di Stabilità 2015”, n. 190/2014 - è un segnale di fiducia.

Presupposto di tale scelta è infatti che la stabilità non sia solo interesse del lavoratore, ma anche dell’impresa che decide di investire sulle proprie maestranze, puntando su esperienza, know-how, qualificazione professionale e rapporto di fiducia, quali fattori che incidono sulla propria competitività sul mercato.

L’impresa, quindi, mentre potrà beneficiare di uno sgravio contributivo di 8000 euro l'anno per 3 anni per ogni assunto, fidelizzando il lavoratore potrà meglio investire nel tempo sulle risorse umane. Questo potrebbe essere uno degli aspetti più importanti della riforma, derivante dalla trasformazione di gran parte dei contratti "flessibili" in contratti a tempo indeterminato.

Un secondo aspetto importante è che il legislatore abbia deciso di intervenire, contemporaneamente, in materia di flexicurity. Infatti, con il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria, nonché con il contratto di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, oggetto del secondo decreto attuativo, si è intervenuti in maniera organica su quasi tutta la disciplina giuslavoristica.

Le politiche di flexicurity, infatti, si basano su un triplice intervento:

- una regolazione flessibile delle entrate e delle uscite nel rapporto di lavoro;

- la sicurezza del reddito in caso di difficoltà occupazionale (sospensione/cessazione del rapporto di lavoro);

- un sistema efficace di politiche attive, al fine del reimpiego.

Una questione aperta riguarda il fatto che le disposizioni concernenti il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si applichino esclusivamente ai nuovi assunti, con la conseguenza del permanere di una diversa disciplina fra vecchi e nuovi assunti. Se questo è stato, probabilmente, il prezzo da pagare al cambiamento, sono da correggere quantomeno le storture più evidenti, ad esempio prevedendo che il diverso regime tra vecchi e nuovi assunti concernente il licenziamento non si estenda anche alle procedure conciliative e al processo del lavoro.

Valutare gli effetti positivi o negativi del Jobs Act sulla competitività del Paese è un po' prematuro e forse un po’ limitato. La flessibilità in entrata e in uscita può stimolare la dinamicità del mercato del lavoro, che in questi anni sicuramente è stata assente o quantomeno, soprattutto a causa della crisi economica, limitata alle uscite.

Un segnale positivo, in proposito, viene dall'annuale rapporto dell'IMD, l'istituto di Losanna che ha raccolto le opinioni di 6 mila manager a livello planetario aggregandole poi in una serie di indicatori di competitività. Secondo la classifica dell'IMD l'Italia nel 2015 ha registrato il record di miglioramento delle performance di competitività, passando dal 46° al 38° posto nel mondo.

Se si affronta il tema della competitività a livello microeconomico, occorre richiamare i tanti fattori che determinano la capacità delle imprese di essere concorrenziali “in condizioni di mercato libere ed eque”: non solo il prezzo, ma la qualità del prodotto, i modelli produttivi e organizzativi, le strategie di distribuzione e marketing, le politiche del marchio. Esistono inoltre fattori non dipendenti dalla singola impresa, come le istituzioni e le politiche, il contesto macroeconomico (la certezza dei contratti, la politica monetaria e il sistema creditizio, la burocrazia e le infrastrutture, le modalità di partenariato pubblico-privato, ecc.), lo sviluppo tecnologico diffuso e la qualità e i livelli di istruzione.

Nel 2000, il Consiglio europeo di Lisbona si prefiggeva l’obiettivo di far sì che l’Unione Europea fosse “l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, in grado di creare una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale.”

A soli due anni da Lisbona, e ben prima della crisi finanziaria ed economica, la Commissione ha denunciato un indebolimento generalizzato della competitività del sistema europeo, proponendo politiche di riduzione dei costi di produzione, anche incentrate sulla riduzione dei salari a parità di prodotto. La svalutazione salariale è una soluzione immediata per aumentare la competitività, ma trascura altri fattori che sono molto più determinanti, soprattutto nei sistemi economici avanzati.

Anche il Jobs Act, attraverso lo sgravio fiscale dei 3 anni, comporta una riduzione del costo del lavoro per le imprese, senza impatto negativo sul dipendente. Il Jobs Act sta iniziando forse a produrre effetti sulla competitività delle imprese soprattutto piccole e medie, che hanno la necessità di investire su una manodopera molto qualificata e stabile: questo, insieme ad altri fattori, potrebbe contribuire all’aumento della competitività del Paese e allo sviluppo di ciascuna azienda.

Certo, il Jobs Act non è la panacea di tutti i problemi di un sistema economico e industriale non competitivo: tuttavia, può essere il primo tassello di un mosaico ancora tutto da costruire.